sabato 28 gennaio 2017

I timori deflazionistici finalmente si stanno dissolvendo


I timori deflazionistici finalmente si stanno dissolvendo

Dopo due anni di prezzi insolitamente bassi, l’inflazione nei Paesi ricchi è destinata, quest’anno,  ad aumentare. Molto dipenderà dal prezzo del petrolio, sceso al di sotto dei 30 dollari al barile nei primi mesi del 2016 ma recentemente salito ad oltre 50 dollari.  Questa è una buona notizia. Il quadro per il 2017 non è di un’inflazione che corre troppo, ma di un gradito alleggerimento dei timori di deflazione.

Per capire il perché, consideriamo i tre grandi fattori che determinano l’inflazione nei Paesi ricchi: il prezzo delle importazioni, la capacità potenziale residua dell’economia interna e le aspettative delle persone. 

Cominciamo dall'inflazione importata. Un anno fa, i prezzi delle merci in generale erano in caduta a causa di una discesa della domanda aggregata e di un surplus apparentemente senza fine di materie prime e manufatti. L’economia della Cina vacillava. I mercati emergenti erano generalmente depressi; due di quelli più importanti, il Brasile e la Russia, erano in profonda recessione. Ora la situazione è cambiata. I mercati emergenti hanno ancora molte aree di criticità, ma le economie maggiori si stanno stabilizzando. Dopo essere scesi per 54 mesi, i prezzi di produzione in Cina stanno finalmente risalendo ed il surplus di offerta, sebbene ancora cospicuo, si sta riducendo. Inoltre, il miglioramento della domanda si riflette nelle rilevazioni positive dei manager responsabili degli acquisti  in Asia e nei Paesi ricchi. E’ visibile anche in una ripresa dei prezzi delle materie prime. Così i Paesi ricchi stanno importando inflazione. La portata dell’impatto che questo potrà avere dipende dal tasso di cambio. In America, dove l’inflazione di base è vicina al 2%, obiettivo della Federal Reserve, il dollaro è salito. In Giappone e nell'area Euro, dove l’inflazione di base è più bassa, lo Yen e l’Euro si sono indeboliti.

Il secondo fattore che influenza notevolmente l’inflazione è la capacità potenziale residua dell’economia interna. Il tasso di disoccupazione, che misura la debolezza del mercato del lavoro, è spesso un indicatore significativo. Su questa base, l’economia americana, con la disoccupazione al 4,7%, è vicina alla piena capacità. I salari medi sono aumentati del 2,9% lo scorso anno fino a dicembre, il livello più alto dal 2009. Ponendo che la tendenza della crescita di produttività sia intorno all'1%, allora l’aumento salariale di circa il 3% è coerente con l’aumento del 2% dei costi salariali unitari, in linea con l’obiettivo d’inflazione fissato dalla Fed. Il quadro è più fosco in altre parti del mondo ricco. I mercati del lavoro nell'area Euro sono più rigidi e l'effetto sull'inflazione si verifica su livelli di disoccupazione più elevati che in America, con una crescita dell’economia minore. Il tasso di disoccupazione è al 9,8% (Eurostat). Le grandi economie del Sud dell’area Euro, come l'Italia, hanno un’ampia capacità potenziale residua. Quindi se l’inflazione dovrà riavvicinarsi al limite del 2% fissato dalla Banca Centrale Europea, ciò comporterà che altre economie, principalmente quella tedesca, abbiano tassi d’inflazione ben al di sopra del 2%. Ed in Germania, un paese con la fobia dell’aumento dei prezzi, l’inflazione,  basata sull'indice dei prezzi al consumo (CPI), a dicembre dello scorso anno ha fatto registrare un balzo dallo 0,84% all'1,68%, come pubblicato lo scorso 17 gennaio.  In Italia siamo invece allo 0,49%, dallo 0,09%.

La Germania ha un mercato del lavoro saldamente strutturato. Il tasso di disoccupazione è appena al 4,1%, la forza lavoro è diminuita con l’invecchiamento della popolazione e dopo un decennio o più di ristrettezze, i salari sono leggermente aumentati . Il compenso per dipendente è salito ad un tasso annuale medio del 2,5% dal 2010, secondo l’OCSE. Ciò accade più rapidamente che in qualunque altro Paese del G7, ma ancora non abbastanza da portare l’inflazione tedesca fino ai livelli necessari per spingere l’inflazione dell’Euro-zona vicino al 2%. Una crescita dei salari più rapida non ha portato ad un aumento dell’inflazione nei prezzi al consumo.  L’inflazione "core" è intorno all’1,1% dal 2010. Le aziende tedesche hanno assorbito l’aumento dei costi salariali senza aumentare i prezzi.

Il fatto che i salari non siano aumentati più velocemente è dovuto in gran parte al terzo fattore che determina l’inflazione: le aspettative. Le aziende si sentiranno più libere di spingere in alto i prezzi, e i lavoratori di contrattare maggiori aumenti di stipendio, se si aspettano un’inflazione più alta. In teoria, le aspettative sono nelle mani delle banche centrali. Se riescono a convincere il mercato che hanno gli strumenti per regolare la domanda aggregata, e quindi il livello di utilizzo della capacità produttiva, le aspettative dovrebbero convergere sull'obiettivo fissato dalla Banca Centrale, cioè di solito il 2% nei Paesi ricchi. Ma le aspettative sono influenzate anche da quel che l’inflazione è stata negli ultimi tempi. Nei Paesi ricchi, è stata bassa. Le aspettative d’inflazione nei mercati finanziari di recente si sono rialzate, ma nell'area Euro sono ancora al di sotto dell’obiettivo. In Giappone, due decenni di deflazione hanno insegnato alle aziende e ai lavoratori ad aspettarsi molto meno del 2%.

Ricomponendo i vari pezzi del puzzle, emerge questo quadro: l’inflazione nei Paesi ricchi probabilmente aumenterà rapidamente agli inizi del 2017, grazie in gran parte all'aumento dei prezzi del petrolio e ad una crescita dell'economia globale generalmente più solida. Questo aumento dell’inflazione potrebbe far salire le aspettative d’inflazione e preparare il terreno per ulteriori rivendicazioni salariali nell'Europa del Nord e in Giappone nel 2018. 
Alcuni analisti si aspettano che un’inflazione più alta aggiunga un punto percentuale al PIL nominale nel 2017, stimolando una ripresa dei profitti e creando le basi per un recupero nella spesa in conto capitale (anche senza tagli alle tasse in America).


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