mercoledì 24 febbraio 2016

Brexit, quanto costa e chi paga?

Brexit, quanto costa e chi paga?

Lo scorso 18 febbraio si è svolto a Bruxelles un decisivo incontro con il premier inglese Cameron che ha successivamente annunciato la data dell’atteso referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Il voto si terrà il prossimo 23 giugno e finora i  pronostici vedono la maggioranza degli inglesi a favore della Br-exit. La tensione è già alta per una decisione che potrebbe ridisegnare i confini politici dell’Europa.
Al centro della discussione della scorsa settimana temi molto delicati, quali la gestione del meccanismo di emergenza che consente ai paesi di sospendere i benefici previdenziali dei cittadini europei all’estero, l’unione bancaria e la gestione dell’immigrazione. Proprio su quest’ultimo punto la Grecia aveva minacciato di porre il veto all’accordo con Londra senza le dovute rassicurazioni sull’aiuto europeo nella gestione dei confini. Ancora più ostico il problema della gestione dei 160mila profughi da “redistribuire”, ad oggi presenti in Italia e Grecia.
A parte i dettagli, questo accordo “strappato” (Cameron) dalla Gran Bretagna crea di fatto un’Europa a due velocità e potrebbe provocare profonde spaccature tra i Paesi membri.

Cosa comporterebbe la Brexit ?
Le ipotesi formulate sono molteplici, ancora di più le cifre in ballo, e le conseguenze più rilevanti sarebbero a carico della stessa Gran Bretagna. Il Centre of Economic Performance della London School of Economics, stima perdite del Pil inglese tra il 6,3% e il 9,5%. Più ottimista l’Istituto Nazionale di Ricerca Economica e Sociale, secondo cui la diminuzione del Pil sarebbe “solo” del 2,25%.
Anche l’agenzia Fitch ha realizzato un’approfondita analisi, auspicando che anche in caso di Brexit “le autorità di entrambe le parti cercheranno di evitare di distruggere la profonda integrazione economica e finanziaria tra Regno Unito ed Ue stabilendo nuovi rapporti chiari, inclusa un’intesa commerciale che permetta al Regno Unito di continuare ad attirare gli investimenti”.
Fitch non esclude però i problemi, affermando che “potrebbero verificarsi importanti rischi, in particolare se i restanti membri dell’Ue cercassero di imporre condizioni punitive al Regno Unito per distogliere altri Paesi dall’andarsene o se la Gran Bretagna cercasse di imporre restrizioni molto dure ai cittadini europei che vanno a lavorare nel Paese”.
Le ripercussioni non ricadrebbero solo Londra, ma anche sugli altri Paesi dell’Unione. Primo tra tutti la Germania, che con il Regno Unito intrattiene importanti rapporti commerciali, e che vedrebbe un calo del Pil tra lo 0,3% e il 2%.
Anche l’Italia ha molto da perdere, considerato che con il Regno Unito intrattiene frequenti scambi, specie nel settore alimentare e della ricerca.
Da non trascurare inoltre l'aumento delle quota da versare nelle casse europee a carico dei 27 Paesi restanti, venendo a mancare l’apporto di un importante contribuente come la Gran Bretagna.
I danni sarebbero molti e nessuno resterebbe immune. Non a caso il mondo economico inglese è profondamente contrario all’uscita, ed oggi, in seguito all’accordo raggiunto, lo stesso Cameron raccomanderà agli elettori di votare a favore della permanenza di Londra nell’Unione.

Tanto premesso è molto probabile che i mercati saranno molto sensibili ai sondaggi sulle intenzioni di voto dei cittadini britannici.


mercoledì 17 febbraio 2016

E-payment : il futuro è già qui.



E-payment : il futuro è già qui.


La nuova frontiera dei servizi di pagamento è rappresentata dall’e-payment. Si tratta principalmente di strumenti di moneta elettronica, sempre più spesso legati all’uso degli smartphone, fino ad arrivare alle operazione contactless, per tutte quelle carte di pagamento dotate di microchip Rfid. In crescita il numero dei pos in grado di gestire le carte di ultima generazione, che a fine 2015 ha raggiunto quota 500mila. Lo stesso tipo di apparato è in grado di gestire i pagamenti con smartphone, anch’essi sempre più diffusi. C’è da dire che finora la diffidenza e le abitudini hanno rallentato lo sviluppo di questo settore, su cui però ora si punta in maniera decisa e che sembra ormai avviato ad una enorme diffusione. 

Molti gli intermediari che scendono in campo con le proprie proposte, a partire dal Google Wallet, lanciato già nel 2011, che ebbe scarso successo a causa della mancanza di smartphone dotati di tecnologia NFC (Near Field Communication). Da allora molte cose sono cambiate e gli apparati disponibili – solo in Italia - sono diversi milioni, tra i quali l’iPhone di Apple, con la sua applicazione Apple Pay.

Anche gli operatori di telefonia e gli istituti di credito si stanno muovendo nella stessa direzione, sviluppando moderne tecnologie. La linea di tendenza su cui la maggior parte delle banche sta investendo, riguarda la virtualizzazione delle carte, cioè la dematerializzazione di queste ultime attraverso il cloud.

La sicurezza è in cima alla lista delle priorità e verrà gestita mediante una serie di parametri molto sofisticati, a partire dall’esame di dati biometrici fino alla codificazione dei dati con dei token univoci che renderà, di fatto, i dati invisibili.  

mercoledì 10 febbraio 2016

Tango Bond, finalmente la svolta


Tango Bond, finalmente la svolta

Dopo 14 lunghi anni e numerosi fallimenti, sembra arrivata la svolta per 50.000 detentori di bond argentini. È del 2 febbraio infatti la notizia dell’accordo preliminare raggiunto tra la TFA Task Force Argentina – costituita dalla banche italiane – ed il Governo di Buenos Aires.

I fatti vanno avanti dal dicembre del 2001, quando l’Argentina dichiara ufficialmente l’insolvenza. Gli italiani coinvolti sono tantissimi, l’ABI stessa nel gennaio del 2002 parla di “circa 150/200 mila risparmiatori, per investimenti nell’ordine di una decina di miliardi di euro”. Ai risparmiatori restano due strade: l’azione individuale e quella collettiva, guidata proprio dalla Tfa. Passano gli anni e le proposte transattive che arrivano da Buenos Aires sono del tutto insoddisfacenti. La prima è del 2003 ed è pari ad appena il 9% dell’importo iniziale, la seconda del 2005, quando viene proposto circa il 25%. In entrambi i casi la Tfa non accetta l’offerta, ritenendo l’importo insufficiente e l’impegno scarso, specie per un Paese che nel frattempo si è anche risollevato economicamente. Nello stesso anno quindi la Tfa fa ricorso all’ICSID, il tribunale della Banca Mondiale, chiedendo che venga restituito l’intero valore nominale delle obbligazioni, oltre interessi. Nel 2010 l’Argentina propone un’Offerta Pubblica di Scambio estesa anche all’Italia, che vuole sostituire i vecchi bond con nuovi titoli, dilazionandone le scadenze o anticipandone i rimborsi con uno lauto “sconto” sull’importo da pagare. Anche in questo caso la Tfa invita i destinatari dell’OPS a svolgere un’approfondita analisi del Documento d’Offerta, sottolineando che si tratta comunque di un’iniziativa unilaterale della Repubblica Argentina e non di una negoziazione con la stessa Tfa.  

Viste le premesse, assume ancora più rilievo la notizia dell’accordo bilaterale siglato lo scorso 2 febbraio tra il ministro del Tesoro argentino Alfonso Prat-Gay e Nicola Stock, presidente della Tfa. Buenos Aires ha acconsentito di pagare in contanti il 150% dell’importo originario, per un valore complessivo di circa 1,35 miliardi di dollari, a fronte di 900 milioni, detenuti dai 50.000 risparmiatori che non avevano accettato le proposte precedenti. Un risultato ancora più significativo se confrontato con lo scarno 30% proposto nel 2010 che qualche investitore, sfinito dall’attesa, ha purtroppo accettato. I dettagli dell’intesa sono stati diffusi dalla stessa TFA attraverso un comunicato stampa.

L’ultimo passo sarà l’approvazione dell’accordo da parte del Parlamento argentino, a cui verrà presentato il prossimo 1° marzo.

mercoledì 3 febbraio 2016

Braccio di ferro Italia-Germania


Braccio di ferro Italia-Germania. 
Flessibilità o Fondo Unico?

Continua la lunga discussione sul tema "banche". Se da una parte Banca d’Italia chiede di rivedere le regole sul bail-in per ridurne l’impatto sulla fiducia dei risparmiatori, dall’altra la Germania respinge  la creazione del fondo di garanzia unico sui depositi bancari. E’ lo stesso Draghi, presidente della BCE,  a parlarne lunedì durante l’audizione al Parlamento Europeo di Strasburgo e a rispondere indirettamente ad entrambe le richieste. Ha ricordato che le regole sul bail-in sono state approvate dall’Europarlamento, e quindi anche dai rappresentanti italiani, e che bisogna puntare sulla garanzia unica dei depositi bancari, per aumentare la fiducia nella sicurezza dei depositi in tutti i paesi dell'area euro.

Quali le ragioni della Germania ? Il fondo unico, darebbe luogo una vera e propria mutualizzazione dei rischi bancari tra i paesi membri, ed esporrebbe al rischio di insolvenza di una banca anche i contribuenti che vivono in altri stati. Inoltre, molte banche europee hanno in portafoglio tanti titoli di stato, prime tra tutte quelle italiane. Da qui le due richieste della Germania: l’applicazione incondizionata del bail-in con conseguente miglioramento della patrimonializzazione e l’introduzione di limiti nell’acquisto di titoli di stato, attualmente considerati risk free e che non prevedono alcun accantonamento a copertura. Questo il nocciolo della questione, la moneta di scambio per il completamento dell’Unione bancaria.

Regole che per l’Italia potrebbero avere varie implicazioni, e non solo a livello bancario. Specie in considerazione del fatto che il probabile calo della domanda in titoli di stato (diretta conseguenza del minore acquisto da parte delle banche) potrebbe portare a sensibili variazioni nei relativi rendimenti. 

Dal canto suo Draghi non si tira indietro e continua per la sua strada. La prossima mossa sarà probabilmente un ulteriore rafforzamento del quantitative easing, senza il quale nel 2015 – spiega – l’inflazione sarebbe stata negativa.