sabato 29 ottobre 2016

I timori del mercato obbligazionario


I timori del mercato obbligazionario

Molti Paesi industrializzati, a partire dalla crisi finanziaria globale del 2008, hanno accumulato deficit di bilancio ed il rapporto debito-PIL è molto più alto oggi di quanto fosse all'inizio degli anni ’90. Tuttavia, il mercato dei titoli governativi sembra incutere lo stesso timore di un chihuahua  in una borsetta, con i rendimenti vicini al minimo storico.

Negli anni ’90 i mercati vendevano quando temevano che i Paesi stessero perseguendo politiche monetarie o fiscali irresponsabili. In Gran Bretagna la paura  di una Brexit "hard” si sta adesso ripercuotendo sulla crescita dei rendimenti dei gilt, che però sono ancora al di sotto dei già bassi livelli di prima del voto sull'uscita dall'Unione Europea, a giugno. Anche i Paesi in via di sviluppo con grandi deficit di bilancio possono collocare facilmente i loro titoli. Il 19 ottobre, per esempio, l’Arabia Saudita si è rivolta ai mercati per la prima volta, raccogliendo 17.5 miliardi di dollari – la più grande emissione di titoli mai avutasi in un mercato emergente.

Le banche centrali sono state il fattore principale nella trasformazione del mercato. Dopo la crisi, si sono affidate all'alleggerimento quantitativo (il “quantitative easing”, o “QE”), cioè all'espansione dei loro bilanci creando nuova liquidità per acquistare titoli. Il totale degli attivi delle sei banche più attive (la Federal Reserve, la Banca del Giappone, la Banca Centrale Europea, la Banca Nazionale Svizzera, la Banca d’Inghilterra e la Banca Popolare Cinese) sono saliti dai circa 3 trilioni di dollari nel 2002 a più di 18 trilioni oggi, secondo Pimco, con l'unico obiettivo di abbassare i tassi ovvero mantenerli vicino allo zero. Anziché fungere da controllori che tengono d’occhio i politici dissoluti, le banche centrali sono diventate loro complici.

Poi vi sono i fondi pensione e le compagnie assicurative, che comprano titoli di Stato per far fronte ai loro debiti a lungo termine. Nessun gruppo ha interesse a vendere titoli se il rendimento diminuisce; anzi, può avere necessità di comprare di più perché, quando i tassi d’interesse sono bassi, aumenta il valore attuale  dei loro debiti futuri.

Anche le banche giocano un ruolo importante.  Sono state incoraggiate a comprare titoli di Stato  come “riserva di liquidità”,  per evitare i problemi di finanziamento che hanno avuto durante la crisi del 2008. Li usano anche come collaterali ai prestiti a breve termine.

Con così tanti acquirenti forzati, titoli di Stato del valore di trilioni di dollari hanno rendimenti negativi. 

Per buona parte del XX secolo, le obbligazioni erano la scelta  primaria per gli investitori che volevano un guadagno decente. Ora non più. I titoli di Stato sembrano essere un rifugio d’emergenza per gli investitori istituzionali. Le regole dicono che i titoli di Stato sono sicuri, rendendone quasi obbligatorio il possesso.

Se le banche centrali acquistano consapevolmente una certa risorsa, quella risorsa appare buona come il contante per la maggior parte degli investitori. Allora proprio come il contante, i titoli di Stato generano un guadagno molto basso. Se ciò è sempre vero per i titoli a breve, che si ripagano in alcune settimane o mesi, ora si applica in modo molto più ampio: i rendimenti del debito a 2 anni sono negativi in Germania e Giappone e al di sotto dell’1% in America. Le operazioni sul mercato aperto, in cui le banche centrali comprano e vendono titoli, di solito si concentravano su un debito che scadeva in meno di 3 mesi; ora coprono i rendimenti con scadenze molto più lunghe.

Questo nuovo mercato ha creato un problema per coloro che gestiscono fondi misti o che gestiscono la ricchezza privata – e che davvero si preoccupano del rendimento. Gli investitori sono stati costretti ad assumersi un rischio maggiore cercando di ottenere un rendimento più alto. Hanno comprato titoli societari e debito del mercato emergente. E nei mercati dei titoli di Stato hanno comprato  debito a più lungo termine con rendimenti più alti. 

Una misura chiave del rischio è la durata; il numero di anni che gli investitori impiegherebbero per riguadagnare quanto investito. In Europa la durata media del debito governativo è salita da sei a sette anni dal 2008, secondo Salman Ahmed di Lombard Odier. Questo non vuol dire molto. Ma quanto più un portafoglio ha una durata lunga, tanto più esso è esposto ad un aumento dei tassi ed anche un aumento dei tassi di mezzo punto percentuale potrebbe provocare significative e pericolose perdite.

Un altro cambiamento nei mercati acuisce il problema: la liquidità si è deteriorata. Ci sono stati degli improvvisi  sbalzi di rendimento negli ultimi anni; nel 2013, per esempio, quando la Fed cominciò il "tapering", cioè a ridurre il suo programma di quantitative easing,.

Se in gran numero gli investitori dovessero decidere di vendere le loro posizioni rischiose, gli acquirenti sarebbero pochi; i prezzi potrebbero variare molto rapidamente. Tuttavia non è difficile immaginare le ragioni di una vendita in massa. Se la Fed decide di far salire i tassi d’interesse più rapidamente di quanto i mercati si aspettino, i rendimenti potrebbero aumentare in tutto il mondo. Lo stesso potrebbe accadere se le banche centrali in Europa e in Giappone decidessero di non voler più comprare il debito di Stato: tali timori, questo mese, hanno spinto leggermente in alto i rendimenti in Europa. Oppure gli investitori potrebbero cominciare ad agitarsi riguardo alla portata del rischio creditizio che si sono assunti. Nei mercati emergenti, per esempio, più della metà dei titoli societari sono classificati come “speculativi” o “spazzatura”, e il tasso di default è cresciuto stabilmente.

In breve, il mercato obbligazionario è instabile. E’ tarato per un mondo in crescita lenta e con inflazione bassa, non lasciando margine d’errore se le cose cambiano. La cosa più temibile nel mercato moderno è il rischio che ora cambino davvero.

domenica 23 ottobre 2016

Inflazione : effetto Brexit


Inflazione : effetto Brexit

L’inflazione della Gran Bretagna ha raggiunto il livello più alto dalla fine del 2014: l’indice dei prezzi al consumo (CPI) ha accelerato all'1% annuale a settembre - dallo 0,6% del mese precedente - Gli economisti si aspettavano invece che l’indice salisse allo 0,9%, dopo il calo della Sterlina susseguente alla Brexit, che recentemente ha toccato il livello più basso da 31 anni rispetto al Dollaro.

Il crollo della Sterlina nei confronti di tutte le principali valute, da quando si è votato per la Brexit, ha aumentato il costo delle importazioni nel Regno Unito e la settimana scorsa ha innescato una guerra dei prezzi tra il produttore di Marmite (una crema spalmabile che si usa sui toast), Unilever, e il supermercato Tesco. Gli esperti affermano che le fluttuazioni della valuta impiegheranno del tempo per ripercuotersi sui prezzi e che i costi crescenti continueranno a colpire la spesa dei consumatori l’anno prossimo e nel 2018, mentre un calo degli investimenti dopo il voto per la Brexit spinge ulteriormente verso il basso la crescita economica.

“L’inflazione dei prezzi al consumo dovrebbe balzare in alto a settembre, e sembra destinata a salire rapidamente nei mesi successivi”, aveva previsto l’agenzia di consulenza Capital Economics in una nota ai clienti in cui si prevedeva un tasso d’inflazione proprio all'1% a settembre. “Un aumento a settembre sembra inevitabile. Il calo della Sterlina e l'aumento del prezzo del petrolio in Dollari ha visto la spesa del carburante al distributore salire di oltre l’1% a settembre. Inoltre, ci attendiamo un ulteriore rialzo dell’inflazione, l’anno prossimo, a oltre il 2% entro la primavera quando gli effetti del calo nel tasso di cambio si faranno sentire sull'andamento dell’inflazione".

L’EY Item Club, agenzia di previsioni, si aspetta che l’economia britannica cresca dell’1,9% quest’anno, alimentata da un aumento al 2,5% nella spesa al consumo sullo sfondo di un’inflazione bassa. Ci si aspetta però che questa prestazione svanisca col balzo dell’inflazione al 2,6% l’anno prossimo e all'1,8 % nel 2018, provocando un crollo della spesa al consumo allo 0,5% e allo 0,9% rispettivamente.

La prospettiva di una crescita dell’inflazione la settimana scorsa ha inoltre impaurito i mercati finanziari e gli investitori si sono sbarazzati dei titoli di Stato britannici, noti come “gilts”. Alla fine di un’altra settimana tumultuosa per i mercati, i rendimenti dei gilt a 10 anni, che hanno un andamento inverso rispetto ai prezzi, sono saliti ai loro livelli massimi dal referendum di giugno.

La Sterlina è rimasta sotto pressione in confronto al Dollaro e all’Euro, crollando fino a meno di 1,22 Dollari e 1,11 Euro. Questo va paragonato all’ 1,49 Dollari e 1,31 Euro della sera del voto sulla permanenza nell’Unione Europea. La principale pressione sulla Sterlina nelle ultime settimane è derivata dalle preoccupazioni per il fatto che il governo si avvia ad una Brexit drastica ("hard"), che lascia il Regno Unito fuori dal mercato unico europeo. I ministri inglesi hanno lasciato intendere che sacrificherebbero quell’accesso in cambio di controlli più rigidi sull’immigrazione.

“Questi segnali da parte del governo di Theresa May  hanno messo in crisi lo sguardo benevolo del mercato sulla Brexit”, secondo quanto dichiarato dagli economisti Robert Wood e Gilles Moec presso la Bank of America Merrill Lynch. Riferendosi allo stato d’animo imperante in estate, hanno scritto in una ricerca: “Spesso sentiamo dire che i rischi della Brexit erano sovrastimati, che l’articolo 50 si sarebbe potuto non applicare mai, o anche se si fosse applicato, la Brexit  non si sarebbe mai attuata realmente”. Ora l’impegno della May ad applicare l’articolo 50 entro la fine del marzo prossimo, avviando la procedura formale di uscita dall’Unione Europea, ha significato che la Brexit “sta andando più veloce di quanto i mercati si aspettassero e si sta realizzando in un modo potenzialmente negativo: riteniamo che una Brexit drastica (hard) sia la cosa più probabile”, hanno aggiunto Wood e Moec.

La Sterlina in caduta, le pressioni inflazionistiche e i colpi ai progetti d’investimento delle aziende dopo il voto per la Brexit lasciano alla Banca d’Inghilterra il compito gravoso di un’azione di bilanciamento. I responsabili della politica economica hanno tagliato i tassi d’interesse fino allo 0,25% in agosto e hanno preannunciato un altro taglio che dovrebbe esserci prima della fine dell’anno. Ma dopo che alcuni studi hanno indicato che i consumatori e le aziende si sono scrollati di dosso lo shock iniziale del voto per la Brexit, quell'ulteriore riduzione è in dubbio.

“Fino alle ultime due settimane, la linea di politica monetaria era apparsa ben definita, con i responsabili che avevano fatto capire di voler di nuovo allentare le maglie prima della fine dell’anno. Ma poi il continuo afflusso di dati e l’ulteriore deprezzamento della Sterlina hanno messo i bastoni tra le ruote”, ha affermato Andrew Goodwin presso l’agenzia di consulenza Oxford Economics.

sabato 15 ottobre 2016

Una minaccia emergente


Una  minaccia  emergente

Quando i rendimenti sui titoli di Stato nei Paesi industrializzati sono pari a zero, o addirittura al di sotto, non è sorprendente che gli investitori gettino le reti in più direzioni. Nel frattempo la “corsa al rendimento”, come è stata definita, ha inevitabilmente fatto volgere l’attenzione ai mercati emergenti.

Uno o due decenni fa, il debito sovrano dei mercati emergenti sarebbe potuto essere l’unico beneficiario di questi flussi. Ma i titoli di Stato non offrono un rendimento così appetibile in questo periodo; i rendimenti sui titoli decennali emessi dalla Malesia e dalle Filippine, per esempio, sono intorno al 3,6%.

Di conseguenza, gli investitori si stanno assumendo un ulteriore grande rischio acquistando in massa debito societario dei mercati emergenti. Quest’anno i fondi obbligazionari in quel settore hanno raccolto 11,5 miliardi di dollari, secondo HSBC. L’entusiasmo è stato ricompensato. L’indice Bloomberg dei titoli societari nei mercati emergenti si è apprezzato del 13,4% dal 1 gennaio, rapportato al 4,4% dei titoli del Tesoro americani. Questo recupero è avvenuto nonostante le oscillazioni d’inizio anno nell'economia cinese e l’impatto dei tassi d’interesse americani più alti.

Il miglioramento delle performance delle obbligazioni societarie emergenti riflette, in parte, un maggiore ottimismo sull'andamento dell'economia. Infatti i prezzi delle merci sono rimbalzati dall'inizio dell’anno, e questa è senza dubbio una buona notizia per i produttori di materie prime. Il Fondo Monetario Internazionale ha appena rivisto le sue previsioni sulla crescita dell’economia emergente quest’anno al 4,2%, la prima accelerazione di crescita in 6 anni; si aspetta una crescita, ancora più rapida, del 4,6% l’anno prossimo. Non sono solo le obbligazioni societarie dei mercati emergenti ad essere salite; lo hanno fatto anche azioni e valute.

Ma gli investitori devono essere cauti. Proprio mentre comprano questo asset, i fondamentali del credito si stanno deteriorando. Nel 2015, 26 emittenti nei mercati emergenti sono falliti, contro i 15 del 2014. Questo ha portato il tasso di default sul debito speculativo al 3,1%, il livello più alto dal 2009, secondo l’agenzia di rating Standard & Poor’s. Già quest’anno altre 18 società emergenti sono fallite, facendo conseguentemente salire il tasso annuale al 3,7%. 

Sebbene la crisi si stia accentuando, quel tasso di default si è collocato poco al di sopra della media storica del 3,5%, cifra che era aumentata per l’alto numero di fallimenti a cavallo degli anni 2000. Il tasso di default più alto in assoluto (17,6%) fu registrato nel 2002.

Probabilmente stanno per arrivare altri default. Più della metà di tutti gli emittenti nei mercati emergenti sono di grado speculativo (o "junk", cioè spazzatura). L’anno scorso Standard & Poor’s ha declassato 290 emittenti nei mercati emergenti e ha aumentato il rating a solo 80 di questi; altri 152 sono stati ritenuti potenzialmente declassabili, mentre si è ritenuto che solo 19 potessero ottenere una valutazione superiore.

Quando le cose vanno veramente male, il default sembra accadere più rapidamente nei mercati emergenti. In media, il gap tra l’emissione di un titolo junk e il suo default è di 3,6 anni nei mercati emergenti, contro una media globale di 5,8 anni.

Che cosa potrebbe accadere per provocare un ulteriore deterioramento dei fondamentali nelle economie dei mercati emergenti? L’OCSE recentemente ha avvertito che “la crescita ancora debole e il notevole calo commerciale nel 2015 e nel 2016 acuiscono le preoccupazioni sulla solidità della crescita globale”. Citigroup calcola che è dagli anni ’30 che la crescita commerciale mondiale non era così debole in rapporto alla crescita globale del PIL.

Per spiegare lo scarso dinamismo commerciale, l’OCSE indica come responsabile “un calo e un’inversione di tendenza nelle liberalizzazioni commerciali”, unitamente all’ “allentamento dei vincoli globali”, cioè delle relazioni tra le multinazionali dei paesi avanzati e i loro fornitori nelle economie in via di sviluppo. Entrambe le tendenze sono una cattiva notizia per quelle società nei mercati emergenti che hanno emesso titoli.

L’ascesa di politici populisti nel mondo industrializzato – inclusa la possibile elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti il mese prossimo –potrebbe costituire una minaccia, perfino più grande, per la crescita. Una guerra commerciale tra l’America e la Cina, come minacciato da Trump, provocherebbe molti danni collaterali.

Quindi, alla fine, gli investitori si potrebbero ritrovare a cercare una via d’uscita da asset con fondamentali in rapido deterioramento. A differenza degli obbligazionisti europei e giapponesi, essi non potranno contare sulle banche centrali e sui loro programmi di allentamento quantitativo (“quantitative easing”) per assorbire gli asset indesiderati. E i vincoli regolamentari impediscono alle banche d’investimento d'agire, come hanno fatto fino al 2008; quindi la liquidità sarà difficile da reperire.

I contorni di una futura crisi dei mercati si stanno già delineando con chiarezza ?


sabato 8 ottobre 2016

La Banca Mondiale rinnova la spinta contro la disuguaglianza


La Banca Mondiale rinnova la spinta contro la disuguaglianza

La Banca Mondiale ha chiesto a gran voce una nuova spinta per affrontare la disuguaglianza, dopo aver segnalato che la distanza tra ricchi e poveri rischia di contrastare la sua ambizione di eliminare la povertà estrema entro il 2030.

Prima del suo incontro annuale con il Fondo Monetario Internazionale a Washington DC questa settimana, la Banca Mondiale ha dichiarato che il numero di persone che vivono con meno di 1.90 dollari al giorno – cifra ritenuta la soglia della povertà estrema - aveva continuato a diminuire nonostante il rallentamento  dell’economia globale negli anni successivi alla crisi finanziaria. Ha aggiunto che una crescita più rapida e una serie di misure contro la disuguaglianza sarebbero necessarie per raggiungere i due obiettivi, strettamente connessi, fissati dal Presidente Jim Yong Kim: ridurre la povertà da poco meno dell’11% della popolazione globale al 3% e aumentare i redditi del 40% più povero della popolazione in ciascun Paese.

Nella prima edizione di un nuovo studio annuale – Povertà e Prosperità Condivisa – che segnerà la direzione nell'affrontare la povertà globale, la Banca ha affermato che il numero di persone che vivono con meno di 1.90 dollari al giorno è sceso di 100 milioni portandosi a 767 milioni tra il 2012 e il 2013, ultimo anno per cui sono disponibili i dati complessivi.

“E’ da sottolineare che i Paesi hanno continuato a ridurre la povertà e ad aumentare la condivisione della ricchezza in un momento in cui l’economia globale sta crescendo meno del potenziale, ma ancora troppe persone vivono con troppo poco” ha dichiarato Kim.

“A meno che non riusciamo a riprendere una crescita globale più rapida e a ridurre la disuguaglianza, rischiamo di perdere l’obiettivo della Banca Mondiale di porre fine alla povertà estrema entro il 2030. Il messaggio è chiaro: per eliminare la povertà dobbiamo fare in modo che la crescita vada a vantaggio dei più poveri, e uno dei modi più sicuri di fare ciò è ridurre la forte disuguaglianza, specialmente nei Paesi ad alto tasso di povertà”.

I progressi registrati nel 2013 sono stati dovuti principalmente allo sviluppo in Cina, Indonesia e India, lasciando la metà dei poveri del mondo a vivere nell’Africa sub-sahariana. I tassi di povertà sono scesi al 3.5% nell’Asia Orientale e nel Pacifico – la regione che include la Cina -  e al 15%  nell’Asia Meridionale – la regione che include l’India – ma rimangono al 41% nell’Africa sub-sahariana.

La Banca ha scoperto che in 60 degli 83 Paesi studiati, i redditi medi del 40% dei più poveri sono aumentati tra il 2008 e il 2013 nonostante la più grave recessione globale dal periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale.

Nel clima  di  crescente avversione alla globalizzazione derivante dalla preoccupazione che i ricchi si  accaparrino  i vantaggi del libero scambio, la Banca ha affermato che la disuguaglianza è diminuita notevolmente a partire dal 1990. La riduzione del gap è stata dovuta  alla rapida crescita  dei maggiori Paesi emergenti, in particolare Cina e India.

La Banca ha chiarito che all'interno dei singoli Paesi il miglioramento è stato più disomogeneo. In 34 degli 83 Paesi presi in esame, le differenze di reddito si sono ampliate dal 2008, con i redditi del 60% più ricco che sono cresciuti più rapidamente rispetto a quelli del 40% più povero.
   Dopo aver studiato un gruppo di Paesi - inclusi Brasile, Cambogia, Mali, Perù e Tanzania - la Banca ha sostenuto la necessità di un approccio multi-fattoriale, articolato in 6 punti, per affrontare la disuguaglianza. Ciò significa:
1. Un’azione sulla prima infanzia mirata a migliorare la nutrizione;
2. Una copertura sanitaria totale;
3. Un accesso generalizzato a buone scuole;
4. Trasferimenti di denaro alle famiglie povere;
5. Un miglioramento delle infrastrutture (strade ed elettricità);
6. Una tassazione progressiva per redistribuire risorse facendole transitare dai ricchi ai poveri.
   
“Alcune di queste misure possono rapidamente avere un impatto sulla disuguaglianza del reddito. Altre apporteranno benefici più gradualmente. Nessuna è una cura miracolosa” ha dichiarato Kim. “Ma tutte sono sostenute da forti evidenze e molte sono alla portata dei Paesi, sia dal punto di vista finanziario, sia tecnico. Adottare le stesse politiche non significa che tutti i Paesi otterranno gli stessi risultati, ma le politiche che abbiamo individuato hanno funzionato ripetutamente in vari contesti in diverse parti del mondo”.

sabato 1 ottobre 2016

Starnuti cinesi


Starnuti cinesi


Gli investitori da tempo diffidano degli starnuti dell’America, sapendo che possono far venire il raffreddore al mondo. Anche in Asia ci si agita per la rinite cinese, che si sta dimostrando altrettanto contagiosa. Per gli epidemiologi finanziari tutto ciò assomiglia ad un puzzle. C'è da aspettarsi che i germi si possano propagare dalla Cina, la maggiore economia asiatica, ad altri Paesi vicini; ma è davvero sorprendente come si stiano rivelando contagiosi.

A differenza dell’America, invischiata nei mercati globali, l’economia della Cina è in una quarantena auto-imposta, protetta da controlli sui movimenti di capitali che limitano le sue interazioni con gli altri. Tuttavia, l’impatto cinese sui mercati borsistici asiatici ha ora quasi la stessa potenza di quello americano.

Due recenti documenti, uno del Fondo Monetario Internazionale e uno della Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), rivelano la portata del cambiamento nell’ultimo decennio. Il Fondo Monetario Internazionale stima che la correlazione tra il mercato azionario cinese e quello di altri Paesi asiatici è salita a più dello 0.3% da giugno dell’anno scorso (1 sarebbe la correlazione “perfetta”), il doppio del livello del periodo precedente la crisi finanziaria globale. Siamo ancora al di sotto dello 0.4 della correlazione tra America e Asia, ma il gap si sta riducendo rapidamente. Secondo la BRI, i titoli asiatici seguono le oscillazioni nel mercato cinese più da vicino (di circa il 60%) da quando c’è la crisi.

Gli investitori sapevano già che i problemi della Cina potevano estendersi nei mercati asiatici e, addirittura, globali. Quando le azioni cinesi sono crollate, l’estate scorsa e agli inizi di quest’anno, quasi dappertutto è accaduta la stessa cosa. E quando la Cina ha svalutato lo yuan del 2% nell’agosto 2015, le valute di altri mercati hanno subìto il contraccolpo. Il Fondo Monetario Internazionale ha calcolato che la correlazione tra le monete asiatiche e lo yuan è ora superiore allo 0.2, il doppio del livello pre-2008.

Entrambi gli studi indicano il peso dell’economia cinese come principale fattore determinante delle crescenti correlazioni. I dati mostrano che i Paesi asiatici con i più forti legami commerciali con la Cina sono quelli più condizionati dalle sue mosse di mercato. Lì è più probabile che gli investitori detengano azioni in aziende che vendono molti prodotti alla Cina; sono comprensibilmente allarmati quando i cali del mercato borsistico fanno ritenere che l’economia cinese sia in difficoltà. E il deprezzamento dello yuan, unitamente ai segnali di debolezza economica, rende meno conveniente per coloro che vivono in Cina acquistare prodotti dall’estero.

Il commercio, comunque, non è il solo veicolo di trasmissione. I legami finanziari ora giustificano circa i 2/5 delle correlazioni tra la Cina e gli altri mercati asiatici, in aumento rispetto al quasi zero di prima del 2008. Nonostante i controlli sui capitali, la Cina ha aperto canali che permettono agli investitori di comprare le sue azioni o dare prestiti alle sue aziende. Questi investimenti possono apparire piccoli in rapporto alla dimensione dell’economia cinese, ma la ricchezza attuale della Cina è tale che essi risultano ingenti in termini assoluti.

Azioni e obbligazioni cinesi detenute all’estero valgono circa 2 trilioni di dollari, più che per ogni altro mercato emergente. Gli investitori asiatici sono stati particolarmente audaci: gli impieghi su Cina e Hong-Kong  valgono più del 10% del PIL per la Corea del Sud, Taiwan e Singapore. Poiché i controlli sui capitali si sono allentati, queste connessioni finanziarie non potranno che approfondirsi. Per adesso il mercato obbligazionario della Cina esiste in un universo a sé stante. Quando lo yuan diventerà una valuta di finanziamento per gli altri, i tassi d’interesse cinesi influenzeranno quelli asiatici.

Come fa notare la BRI, correlazioni più strette in Asia sarebbero ben accolte. Negli ultimi anni i mercati di tutto il mondo hanno manifestato la tendenza a muoversi nella stessa direzione, rendendo più difficile agli investitori diversificare. Col proliferare delle holding internazionali in Asia, con la Cina come punto focale, c’è la reale possibilità che i cicli finanziari in Asia trovino il loro ritmo, differenziandosi dalle altre zone del mondo. La Cina e l’America soffriranno ancora di attacchi di starnuti: con un po’ di fortuna, prenderanno il raffreddore in tempi diversi.