sabato 25 giugno 2016

Shock Brexit


Shock Brexit

A seguito della storica decisione del Regno Unito di uscire dall'Unione Europea (UE), i mercati finanziari ieri hanno chiuso con fortissime perdite.

La cosa più importante, in questo momento, è cercare di stare calmi e di riflettere su cosa potrebbe accadere.

La domanda più importante a cui dovremmo dare una risposta è: ci sarà una recessione globale?

Probabilmente no (causata da Brexit).

Prima di tutto non possiamo non notare che, per quanto riguarda le conseguenze economiche, stiamo parlando di uno shock che è, credibilmente, uno shock regionale e non globale. L’attività economica nel Regno Unito subirà un influsso negativo soprattutto per l’incertezza associata al lungo processo di uscita dall’UE. Questo processo prevede che il governo inglese attivi l’articolo 50 del trattato di Lisbona, che regola proprio l'uscita di uno stato membro dall’Unione. Da quel momento ci sono due anni di tempo per rinegoziare tutti gli accordi bilateralmente. Sottolineo che stiamo parlando di un evento, il referendum inglese, che attiva un processo e che questo processo sarà piuttosto lungo. Aggiungo che il primo ministro inglese Cameron, nell'annunciare le proprie dimissioni entro il mese di ottobre, ha affermato che non sarà il suo governo ad attivare l’articolo 50. Conseguentemente stiamo parlando di un processo che molto probabilmente non comincerà  prima del quarto trimestre del 2016.

Siccome stiamo parlando di un processo anziché di un evento, come ad esempio l'incidente di Fukushima, è probabile un progressivo rallentamento dell’attività economica principalmente per il Regno Unito e, di riflesso ed in misura minore, anche per l’Unione Europea.

Se effettivamente la recessione globale non si manifesterà (ieri è uscito l'IFO in Germania superiore alle aspettative degli analisti), e sarà opportuno monitorare l'andamento degli indicatori pmi, i mercati ritroveranno la calma. Aggiungo che potremmo attenderci una politica monetaria globale più accomodante non solo nel Regno Unito e nell’Eurozona, ma anche negli Stati Uniti e in Giappone, rispetto a quella che avremmo potuto attenderci soltanto giovedì pomeriggio. Così di fatto avremmo uno shock negativo sull’andamento del ciclo economico cui si potrebbe contrappone un potenziale shock positivo di politica monetaria.

Riguardo al potenziale contagio finanziario è importante sottolineare che questo evento non è arrivato inatteso, ma vi sono stati numerosi mesi di preparazione. In effetti, il risultato è parzialmente inatteso dai mercati finanziari, ma le possibili conseguenze negative sembrano oggi essere inferiori rispetto a quelle che abbiamo avuto con analoghi eventi, ad esempio il fallimento di Lehman Brothers,  che hanno scioccato i mercati finanziari.

Infine, il rischio politico. 

In Scozia (62% di voti favorevoli) e nell’Irlanda del Nord ha nettamente vinto il "remain", mentre l’Inghilterra e il Galles hanno votato per uscire. Dopo l’esito del voto la prima ministra scozzese Nicola Sturgeon – parlando da un podio con accanto la bandiera scozzese e quella dell’UE – ha detto che vede il futuro della Scozia nell’Unione Europea e che la possibilità di un nuovo referendum sull’indipendenza, dopo quello perso nel settembre del 2014, è «altamente probabile». 

Più difficile immaginare quali possono essere le ripercussioni sugli altri Paesi europei, dove negli ultimi anni movimenti anti-europei si sono notevolmente rafforzati e potrebbero ricevere ulteriore spinta dal risultato di questo referendum. Il Sole 24ore di oggi scrive che "L'Europa ora teme l'effetto contagio" e che "il terremoto provocato dal risultato referendario ...... potrebbe innescare un effetto domino nella UE". In Olanda, Geert Wilders, leader del partito di estrema destra Pvv accreditato del 37% dei consensi, promette un referendum per abbandonare l'Unione. In Francia Marine Le Pen con il Front National (30% dei consensi) avanza la stessa richiesta. 

L'incertezza non piace ai mercati.

In conclusione, penso che la cosa più importante in questo momento è cercare di stare calmi e di riflettere su cosa potrebbe accadere. Le decisioni di investimento prese in momenti di alta tensione e volatilità raramente si rivelano scelte corrette nel lungo termine. Diversificare sia su diverse asset class e mercati, sia nel tempo (dividendo l’investimento in più momenti), e scegliere almeno in parte prodotti finanziari che permettono una gestione flessibile dei rischi, restano princìpi validi in particolare nelle situazioni di mercato come quella odierna.

sabato 18 giugno 2016

“C'è un solo bene: il sapere. E un solo male: l'ignoranza”


“C'è un solo bene: il sapere. E un solo male: l'ignoranza"


“C'è un solo bene: il sapere. E un solo male: l'ignoranza", diceva Socrate. E non è solo teoria, piuttosto un’idea antica quanto attuale su come l’ignoranza possa avere ripercussioni negative sulla vita di tutti i giorni. Spesso però ce ne rendiamo conto solo quando la non conoscenza ci induce a comportamenti sbagliati o dettati dal sentito dire, di cui invece dobbiamo sopportare le conseguenze. In campo finanziario il discorso non cambia, anzi, il peso delle scelte sbagliate possiamo misurarlo direttamente nelle nostre tasche. 

Proprio noi italiani dovremmo saperlo bene. Se da un lato siamo un Paese con un’elevata propensione al risparmio,  dall’altro abbiamo sopportato nel tempo diverse batoste: pensiamo ai quattro casi recenti di banche fallite, alle vicende Deiulemar, Cirio, Parmalat .... e l'elenco potrebbe continuare.

Anna Maria Lusardi, docente italiana in diverse università americane, come la prestigiosa George Washington University di Washington DC e direttrice del Global Financial Literacy Excellence Center, si batte da sempre per il tema della Financial Literacy, l’Educazione economico-finanziaria. La professoressa Lusardi spiega che “tra le economie avanzate l’Italia è il paese con il più basso livello di alfabetizzazione finanziaria, solo il 37% degli italiani conosce tre dei quattro concetti fondamentali della finanza, più che ai paesi del G7, l’Italia assomiglia ai BRICS: nel Brasile il livello della conoscenza finanziaria è altrettanto basso (35%) e nel Sud-Africa è addirittura maggiore, il 42 per cento”.

Secondo la Lusardi, il concetto che più mette in evidenza tali differenze tra Paesi è quello della diversificazione del rischio. Solo il 40% degli italiani interpellati al riguardo è stato in grado di fornire una risposta corretta, più vicini alla Grecia (36%) e alla Tunisia (37%) che all’Olanda, alla Germania o alla Svezia, dove il 70% degli intervistati ha risposto in maniera esatta. 
Eppure il gap informativo dei nostri investitori comporta conseguenze non solo sui singoli, ma provoca danni che si riversano sulla collettività: si veda ad esempio l’intervento dei governi per il salvataggio di banche o altre istituzioni finanziarie, o anche gli interventi dello Stato  per le famiglie in difficoltà finanziarie.
In America, come spiega la prof.ssa Lusardi, è stata inserita nelle scuole la financial literacy e sono stati varati numerosi programmi per istruire anche gli adulti. Purtroppo da noi questo non accade e le indagini condotte sugli studenti del Bel Paese hanno avuto gli stessi pessimi risultati.  

In Italia, fino a non molto tempo fa, esistevano essenzialmente due tipi di investimenti: da una parte Bot e Buoni Postali Fruttiferi, dall’altra il mattone. È andata avanti così per decenni, ma oggi tutto è cambiato, l’offerta è molto più ampia e la conoscenza è fondamentale. La complessità di alcuni prodotti richiede valutazioni complesse ed il “fai da te” rischia di essere pericoloso.
Prendere esempio da altri Paesi ed introdurre nelle scuole l’Educazione Finanziaria è senza dubbio la strada da percorrere, ma i risultati non sono immediati e richiedono del tempo. Per risolvere nel breve tempo le esigenze delle famiglie italiane ed evitare gli errori delle scelte emotive, é possibile intanto affidarsi ad un esperto. Chiediamo aiuto ad un professionista che ci aiuti a riconoscere e pianificare i nostri obiettivi perché “leggere, scrivere e far di conto” oggi non basta più.

sabato 11 giugno 2016

Leave or remain ?


Leave or remain in the Eu ? 


  Ecco il dilemma che sarà sottoposto ai cittadini britannici tra meno di due settimane, il 23 giugno. Gli elettori sono chiamati al voto per decidere sulla permanenza ovvero sulla (progressiva) uscita del Regno Unito dall’UE. 

Il sondaggio condotto da Bloomberg ha visto restringersi il margine a favore della permanenza (remain), con il 46,8% di favorevoli, contro il 44% di euroscettici (leave). 


Altri sondaggi indicano invece una prevalenza di favorevoli alla Brexit.

In ogni caso, lo scarto è oggettivamente contenuto e sul risultato finale potrebbero pesare anche fattori teoricamente secondari, come il meteo: un tempo sereno potrebbe disincentivare dal voto i più giovani, che sono anche i più europeisti, secondo gli esperti. 
Quindi, non è possibile escludere una vittoria del NO alla UE.
Ed é proprio la vittoria del Leave (lasciare) a preoccupare i mercati.

Su un' orizzonte temporale di sei mesi, la Brexit produrrebbe, secondo BofA Merrill Lynch, una caduta del 15% dei mercati azionari europei (UK incluso), un indebolimento del 10% della sterlina nei confronti del dollaro e un allargamento di 50 punti base degli spread dei titoli obbligazionari britannici.

A più lungo termine gli impatti della Brexit sono ancora più difficili da stimare, anche perché dipendono dall’evoluzione del processo di negoziazione dell’uscita dall’UE. 
Su due aspetti gli addetti ai lavori sono d'accordo.
Innanzitutto é facile vedere gli effetti negativi della Brexit sull’economia sia britannica che europea tenuto conto che il Regno Unito è una membro molto importante dell’Unione Europea. Infatti UK fornisce il 10% del budget dell’Unione e costituisce il 15% del Pil, il 24% dei servizi finanziari, il 30% della capitalizzazione delle borse europee.
Inoltre, non sono affatto evidenti i possibili vantaggi che un Regno Unito meno legato ai vincoli dell’Unione potrebbe ottenere.

Paradossalmente il match potrebbe concludersi con due sconfitti: da una parte un’Unione Europa più povera, più debole e meno unita, dall’altra parte un Regno Unito fuori dal campo da gioco su cui comunque si determina una parte importante del suo benessere economico e del suo peso politico. Un solo esempio: metà delle esportazioni del Regno Unito sono destinate all’UE, contro il 10% dell’esportazioni dell’UE destinate al Regno Unito. 
Il Governo britannico ha stimato un impatto sul Pil annuo del Paese, per i prossimi 15 anni, compreso tra il -3,8% e il -7,5%, a seconda dei vari scenari post-Brexit.