venerdì 29 dicembre 2017

Nella consulenza vincono le soluzioni "su misura"


Nella consulenza vincono le soluzioni "su misura"


Nell'arco di pochi decenni abbiamo assistito a un’evoluzione dell'istituzione famiglia che ha determinato nuove complessità nella vita dei clienti. Un imprenditore – o un libero professionista – è anche un coniuge, un genitore, talvolta con più di una famiglia (ufficiale e non). Qualunque situazione – familiare, personale, professionale o imprenditoriale – presenta degli aspetti specifici che la fanno diventare incomparabile.

È quindi certo che le soluzioni "su misura", organizzate su più strumenti, permetteranno di assecondare le esigenze peculiari di ogni singolo caso. La pianificazione successoria e il passaggio generazionale dei beni, la protezione del patrimonio personale da aggressioni di soggetti terzi e la tutela della famiglia, del professionista e dell'imprenditore sono gli argomenti che vanno maggiormente approfonditi; sarà molto utile una formazione focalizzata sull'analisi di casi concreti.

Lo scorso settembre la Consob ha presentato il rapporto sulle scelte di investimento delle famiglie in Italia che conferma le limitate competenze degli italiani. Sotto l’aspetto dei modelli decisionali, il dato che più mi ha sorpreso è che il 37% degli investitori crede che il servizio erogato da un consulente sia gratuito. Tanto premesso, generalmente la percezione dei clienti non è in linea con la gamma di servizi che il consulente – pianificatore finanziario, economico e patrimoniale personale – può offrire oggi.

(pubblicato su "Consulenza Evoluta" Nov/Dic 2017, numero 21)




sabato 25 novembre 2017

Medaglia d'oro ai PFAwards'18



Medaglia d'oro ai PFAwards'18


Nel 2016 era stata una mail di Widiba a convincermi a partecipare ai PFAwards'17, dove sono risultato vincitore assoluto - PF Specialist - in "Comprensione delle esigenze". Quest'anno è stata una menzione in un post su Linkedin.

PFAwards è la prima e unica iniziativa, certificata UNI EN ISO 9001:2015, volta ad attestare e valorizzare le competenze nelle seguenti categorie: Consulenza Patrimoniale, Consulenza Finanziaria e Competenze Professionali. Inoltre, i PFAwards hanno l’obiettivo di premiare, in ciascuna delle aree individuate, quei professionisti della finanza che hanno saputo dimostrare una piena padronanza della materia sia a livello teorico che operativamente nel rapporto con i propri Clienti.

Il processo di valutazione PFAwards'18 era articolato su tre prove.

PRIMA prova : il questionario on line

Per ogni categoria il Comitato Scientifico ha individuato specifici argomenti, per ciascuno dei quali era previsto un questionario on line. Ad esempio per "Consulenza Patrimoniale" gli argomenti erano : Tutela del Patrimonio, Consulenza Fiscale, Investimenti immobiliari, Consulenza all’Impresa, Pianificazione Successoria, Credito e Finanziamenti. Come precisato nel regolamento, solo i candidati con un "punteggio del 70% in ognuno dei test proposti per i singoli argomenti individuati" sono passati alla prova successiva.

Ecco i miei risultati:


SECONDA prova : l'elaborato scritto

E' stato proposto un caso pratico a cui dare soluzione. La valutazione di tali elaborati è stata curata del Team di Valutazione, che ha selezionato i migliori venti.

In calce il quesito ed il mio elaborato.

TERZA prova : l'intervista individuale

L'intervista è stata condotta in prima persona dal “referente di categoria” del Comitato Scientifico - ho avuto un colloquio con l'Avv. Fabrizio Vedana - ed ha avuto ad oggetto sia argomenti teorici, che casi pratici.

Lo scorso 21 novembre ho ricevuto una mail da Jonathan Figoli, Founder & CEO di PF Professione Finanza, : "...tenevo a complimentarmi con te in prima persona per esserti dimostrato uno dei dieci migliori consulenti in Italia nella Consulenza Patrimoniale! ...... Ti scrivo quindi per invitarti e darti il giusto tributo alla cena di Gala dei PFAwards che abbiamo organizzato per il prossimo 30 novembre al Circolo Filologico di Milano, ..... In questa quinta edizione, abbiamo visto sfidarsi ben 1.563 consulenti, sostenere oltre 58.000 test su tre diverse categorie .... ".


Il prossimo 30 novembre mi sarà consegnata la medaglia d'oro PFAwards'18 in Consulenza Patrimoniale.

Inoltre, mi è stata assegnata la medaglia d'argento in Compentenze Professionali.

PS : Voglio evidenziare che il risultato è anche frutto dell'investimento in formazione di Widiba, ed in particolare dei corsi tenuti da Tiziana Marta (2016) e Alessandro Gallo (2017). 
PQM, Grazie Widiba.


§§§

SECONDA prova : l'elaborato scritto :



sabato 28 ottobre 2017

Qual è il modo giusto di investire, nel lungo termine?


Qual è il modo giusto di investire, nel lungo termine?

Troppe persone guardano ai rendimenti passati, scegliendo gestori di fondi con un buon rating ovvero preferendo gli asset - comparti di investimento - che recentemente hanno fatto bene. Proprio come non ci si può basare sull’affidabilità dei gestori fondi, così le performance degli asset sono fortemente variabili.

Inoltre, bisogna considerare che quanto più alto è il prezzo iniziale dell’investimento, tanto più bassi saranno, probabilmente, i guadagni futuri.

Questo è abbastanza chiaro con le obbligazioni governative. Chiunque acquisti un’obbligazione con rendimento del 2% e la conservi fino alla scadenza, si può aspettare al massimo quel livello di guadagno nominale (quello reale dipende dal livello di inflazione) e non di più. In verità, a voler essere pignoli, c’è anche una qualche probabilità che un governo possa essere inadempiente, come ci ricorda la vicenda dei titoli di stato argentini.

Con i titoli azionari, i calcoli non sono così semplici. Tuttavia, probabilmente comprare azioni con un basso rendimento da dividendi, o con multipli (price earnings ratio) elevati, porterà a guadagni più bassi del normale.
      
Un approccio ragionevole agli investimenti a lungo termine determina i potenziali guadagni dalle varie categorie di asset sulla base delle loro valutazioni e dei fondamentali, ripartendo il portafoglio conseguentemente. In pratica, si cerca di fare valutazioni sensate sui fattori fondamentali  che generano guadagni, ritenendo che le valutazioni torneranno ai livelli medi nel medio periodo.

In effetti, evidenze empiriche provano che questa procedura si è dimostrata affidabile. Gli asset che si pensava avrebbero avuto buone performance hanno dato guadagni relativamente alti; quelli che invece venivano accreditati di brutte prestazioni hanno offerto rendimenti bassi. Ma se la classificazione degli asset tra sopravvalutati e sottovalutati è stata giusta, non altrettanto si può dire del livello di guadagno/perdita. Gli asset che si riteneva avrebbero avuto un rendimento negativo compreso tra il -8 e il -10%, per esempio, hanno in realtà sofferto perdite più contenute, soltanto del 2,8%.

Le previsioni sono state abbastanza accurate per le categorie di asset quali le obbligazioni dei mercati emergenti e le azioni diverse da quelle americane; i rendimenti annuali si sono attestati entro il punto e mezzo percentuale dalle previsioni. Ma per i titoli americani, la stima è stata troppo pessimista, sottostimando i rendimenti di circa 4 punti percentuali all’anno.

La ragione di questo errore è abbastanza chiara. I valori dei titoli non sono rientrati nella media, ma sono rimasti considerevolmente al di sopra dei loro livelli storici.  Se era abbastanza precisa la previsione sulla crescita dei dividendi, l’imprecisione della stima del valore ha determinato l’inesattezza della previsione.      

Ci sono due conclusioni possibili: una è che l’idea sul rientro nei valori medi è errata, perché i titoli sono saliti ad un nuovo livello di valutazione, più alto.  Questo suona strano, come la famosa frase dell’economista Irving Fisher secondo cui, poco prima del crollo del 1929, Wall Street aveva raggiunto un «livello permanente di alte quotazioni».  Ma c’è una giustificazione per il cambio di valutazione: i profitti americani sono stati alti, in rapporto al PIL, per un lungo periodo di tempo. Questo può essere un risultato del potere monopolistico di alcune industrie, o forse del ridotto potere contrattuale dei lavoratori in un’epoca di globalizzazione.

Una tesi più ragionevole è che, con i rendimenti così bassi delle obbligazioni governative e non, gli investitori sono disposti a pagare un prezzo più alto per i titoli azionari perché rappresentano la loro unica speranza di guadagni decenti. Ma dato il basso livello dei dividendi e la lentezza della crescita economica, i profitti dovranno continuare a salire in proporzione al PIL per consentire che i rendimenti delle azioni continuino ad essere alti. Nel lungo periodo ciò - francamente - appare improbabile. 

sabato 30 settembre 2017

Conoscenze ed esperienze, l'EQUIPAGGIAMENTO di un investitore ben informato


Conoscenze ed esperienze, 
l'EQUIPAGGIAMENTO di un investitore ben informato

Alla fine degli anni '80, gli investitori avevano a disposizione esclusivamente strumenti finanziari non complessi, per i quali è "semplice" calcolare il pay off. Nello stesso tempo, "semplice" era anche la relazione con gli intermediari.

Oggi la situazione è profondamente mutata e tante ricerche internazionali di rilevamento del livello di financial literacy provano che le competenze finanziarie degli investitori non hanno tenuto il passo dell'evoluzione degli strumenti finanziari offerti dagli intermediari.

Inoltre, sempre a partire dagli anni '80, si sono approfonditi gli studi relativamente alla finanza comportamentale. È stato dimostrato che, diversamente da quanto sostenuto dalla finanza classica, gli investitori non sono completamente razionali e che, nel momento in cui devono prendere una decisione di investimento, entrano in gioco dei tranelli cognitivi, cioè dei meccanismi automatici (scorciatoie) mentali che li inducono in errore.

Un basso livello di alfabetizzazione finanziaria, come diffusamente rilevato nelle analisi, determina diverse conseguenze negative: minore partecipazione al mercato, minore diversificazione di portafoglio, minore propensione al risparmio. Gli investitori meno alfabetizzati accumulano, quindi, meno ricchezza, non solo per se stessi e per la propria famiglia, ma anche per l'intera società.

Recenti studi dimostrano che il livello di alfabetizzazione incide anche sulla scelta delle fonti di informazione: i soggetti più competenti finanziariamente hanno una maggiore propensione a chiedere un parere a un consulente rispetto ad amici e parenti; viceversa le persone meno competenti.

In concreto: in Italia un risparmiatore su 4 decide da solo, 4 su 10 chiedono consigli a parenti e amici, mentre diversi si confrontano con un consulente per poi decidere in autonomia. Il risultato? Troppa liquidità sul conto corrente e/o troppe obbligazioni bancarie.

Per investire è essenziale affidarsi, quindi, a un consulente perspicace, esperto e competente. Ma non è sufficiente. Anche in altri settori, o in altre attività completamente diverse dal mondo finanziario, la situazione non cambia. In montagna, per esempio, chi va a fare trekking non basta che sia accompagnato da guide molto esperte. Per quanto perspicace, esperta e competente sia la guida, non si può salire una montagna se non si è ben allenati e non si dispone di un adeguato equipaggiamento.

L'equipaggiamento di un investitore sono le sue conoscenze e le sue esperienze.

Il primo inderogabile passo per un'efficace consulenza è fornire all'investitore, comunicando sempre in modo chiaro e comprensibile, gli strumenti per comprendere l'esito delle proprie scelte. Renderlo competente affinché ogni decisione di investimento sia presa consapevolmente.

Come spiega il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco: "L'educazione finanziaria è ovunque componente essenziale delle politiche di tutela del risparmio, in sinergia con gli altri strumenti... Accrescere il livello di cultura finanziaria di tutti i cittadini è oggi un'esigenza più rilevante che in passato".

articolo pubblicato su MyAdvice, settembre - ottobre 2017.





sabato 26 agosto 2017

Economie di frontiera

Economie di frontiera 


Nawaz Sharif è di nuovo ex Primo Ministro del Pakistan. Il suo terzo mandato è terminato il 28 luglio scorso con le dimissioni, dopo che la Corte Suprema lo ha accusato di corruzione, ma poteva - a buon diritto - rivendicare di aver lasciato l’economia pakistana in una condizione migliore di quella in cui l’aveva trovata. Quando il Pakistan è andato alle ultime elezioni, il PIL era in crescita di circa il 3%, un tasso piuttosto basso per un paese povero e in espansione demografica; l’inflazione superava il 10 %; il deficit di bilancio era esploso. In breve, incombeva la crisi. Quattro anni dopo, l’inflazione ha un tasso ad una sola cifra; il deficit di bilancio si è ridotto a poco più del 4% del PIL; il tasso di crescita del PIL si sta avvicinando al 6%. Ovviamente anche gli investitori lo hanno notato. Dal 2012, la capitalizzazione del mercato borsistico del Pakistan è raddoppiata (in dollari).

Il Pakistan non è la Svizzera. Rimane all’estremo negativo dei livelli globali di sicurezza, corruzione e sviluppo delle risorse umane. All’ultimo censimento, circa il 30% della popolazione risultava vivere in povertà. Tuttavia, un’economia in sostanziale crisi è stata, se non altro, rimessa su un terreno più solido. Nel frattempo, il Pakistan è diventato appetibile per gli investimenti. E’ quindi un esempio di inversione di rotta, che dipende da un adeguamento della politica macroeconomica.

Simili storie di ripresa economica sono piuttosto rare, perché le riforme necessarie sono inizialmente dolorose. Tipicamente si trovano nei cosiddetti “mercati di frontiera”, che si collocano addirittura oltre i mercati emergenti, sul margine più rischioso dell’universo degli investimenti. 

"Economie di frontiera" sono le le zone disastrate come lo Zimbabwe, o perfino il Venezuela, che un giorno potrebbero risollervarsi; storie di ripresa in uno stato iniziale, che possono tuttavia vacillare, come l’Argentina, l’Egitto e forse la Nigeria; fino ad arrivare al Pakistan o alle Filippine che sono storie di successo. Non molto unisce tali economie, a parte una storia di cattiva gestione. Ma vi sono alcuni temi comuni. La politica è solitamente instabile, con l’esercito, per esempio, che minaccia in Pakistan, Egitto e Nigeria. Tutti i paesi tendono ad attraversare le stesse tre fasi: una crisi, quando i problemi aumentano e i capitali fuggono; una risposta, in cui un politico affronta la questione spinosa delle riforme, spesso con il sostegno del Fondo Monetario Internazionale; una rinascita, quando il capitale è attratto dalla prospettiva di un recupero economico.

Cominciamo con la crisi. Le circostanze variano da Paese a Paese, ma il modello generale è abbastanza simile. L’economia affronta una difficoltà finanziaria: qualche volta è il deficit di bilancio, più spesso il deficit commerciale. Gli investitori diventano restii ad offrire finanziamenti. I tassi d’interesse s’impennano. Il flusso di capitali esteri si estingue o – ancor peggio - i capitali cominciano a fuggire. La moneta è sostenuta dagli interventi della banca centrale, per sostenere l’illusione che essa abbia un valore maggiore di quello reale, e le riserve di valuta estera si riducono. La moneta forte viene razionata, creando cali di importazioni essenziali. L’economia vacilla. 

I catalizzatori che innescano la crisi possono variare. Un punto debole del Pakistan, per esempio, era la sua dipendenza dalle importazioni di petrolio per far fronte a buona parte del suo fabbisogno di elettricità. Quando il prezzo del greggio superò i 100 dollari al barile nel 2013, il costo dei sussidi governativi sul carburante fece esplodere il deficit di bilancio. In Egitto il problema era il suo deficit corrente, che passò dallo 0,8% del PIL nel 2014 al 5,6% nel 2016. Il calo del prezzo del petrolio incise sui proventi  del Canale di Suez ed i timori per la sicurezza portarono ad un calo delle entrate sul fronte turistico.

Per avere un’inversione di rotta è necessario ci sia la consapevolezza che sono necessarie politiche monetarie e fiscali ortodosse. Questo solitamente significa consentire alla moneta di cadere, tagliare il deficit di bilancio sfoltendo gli sprechi e usare la politica monetaria per controllare l’inflazione anziché finanziare il Governo.

Il passaggio chiave per la ripresa è quando si inverte il flusso dei capitali, in quanto attrarre di nuovo i capitali è cruciale. Siccome ci vuole un po’ per ridurre un grande deficit corrente, anche con una valuta più bassa, i flussi di capitale sono indispensabili sia per finanziare il deficit residuo, sia per ricostituire le riserve di cambio estero.

I primi a far tornare indietro i propri capitali sono quei cittadini che li hanno spostati offshore prima della crisi. L’attrattiva di tassi d’interesse alti (necessari per frenare l’inflazione) e il minor rischio sulla valuta che segue una grande svalutazione tenteranno anche altri. Per esempio, gli investitori stranieri ora detengono quasi un quarto dei Buoni del Tesoro dell’Egitto, secondo la JP Morgan Chase. I condoni fiscali sono un altro modo per indurre il rientro di capitali. L’Argentina ha raccolto in questo modo 117 miliardi di dollari nel 2016-17.

La speranza è che l’inflazione salga, l’economia cresca ad un ritmo accettabile e il disavanzo corrente sia gestibile.  Questo poi dà adito ad un programma di ulteriori riforme e ad un periodo di crescita economica senza più crisi. 

Ma le cose possono anche andare male.

Un pericolo è che le difficoltà e l’instabilità sociale possano ostacolare il processo di riforme. I tagli alle sovvenzioni al culmine di grandi svalutazioni sia in Argentina, sia in Egitto, hanno spinto i tassi d’inflazione fino al 22% e al 31% rispettivamente. In Egitto l’inflazione sui prezzi degli alimentari è vicina al 40%. Anche così, in entrambi i Paesi l’economia sta cominciando a ripartire. 

Un ulteriore problema é che una volta che è ritornata un po’ di stabilità, la spinta per ulteriori riforme spesso svanisce. Prendiamo il Pakistan: da quando ha terminato il programma del Fondo Monetario Internazionale l’anno scorso, c’è stato un allentamento del rigore fiscale e monetario e una riproposizione di vecchi problemi nelle sue società energetiche. Le attese per una crescita più rapida ora si fondano sugli investimenti cinesi in un corridoio economico Cina – Pakistan (o CPEC) di 3000Km (1875 miglia), nell'ambito dell'iniziativa "One belt, one road", la nuova via della seta. Ma questo mette il Pakistan in una posizione già sperimentata: la dipendenza dal capitale estero, che può rivelarsi instabile e costoso. I problemi ci metterebbero un po’ a ripresentarsi; nel frattempo, gli investitori potrebbero parlare della grande svolta nello Zimbabwe o in Venezuela.

sabato 29 luglio 2017

Le stampanti in 3D cambieranno i processi produttivi


Le stampanti in 3D cambieranno i processi produttivi

I progressi nella produzione spesso impiegano del tempo per affermarsi. Solo in un secondo momento la loro vera portata appare evidente. 

La spoletta volante, inventata nel 1733 da John Kay, un tessitore britannico, consentì la produzione di pezzi di stoffa più grandi. Poiché il suo movimento poteva essere meccanizzato, la spoletta divenne poi una delle innovazioni che aprirono la strada alla Rivoluzione Industriale. 

Nel 1913 Henry Ford produsse l’automobile per le masse - il suo famoso modello T - su una catena di montaggio; ma fu Ransom Olds, un decennio prima, a farsi balenare l’idea di una linea di montaggio che facesse aumentare notevolmente la produzione della sua Curved Dash, auto a benzina della Oldsmobile. 

Per tutti gli anni ’80 i dirigenti automobilistici erano perplessi relativamente al Toyota Production System, di Taiichi Ohno ed i suoi strani metodi, come la consegna dei pezzi col sistema “just-in-time”. Ora è universalmente utilizzato.

Come sfruttare quindi il potenziale della “stereolitografia”, inventata da Chuck Hull nel 1983? Hull è il co-fondatore della 3D Systems, una delle aziende in crescente espansione che producono le cosiddette stampanti in 3D. Queste macchine permettono di disegnare un prodotto sullo schermo del computer e poi “stamparlo” come oggetto solido aggregando gli strati di materiale, in successione. La stereolitografia è tra le dozzine di approcci alla stampa in 3D (nota anche come manifattura additiva).

La stampa 3D è diventato un modo comune di produrre i singoli prototipi, perché i cambiamenti si possono fare in maniera più semplice ed economica modificando il software di una stampante in 3D che resettando gli strumenti in fabbrica. Ciò significa che questa tecnologia è l’ideale per la produzione in piccolo, come per i prodotti artigianali quali i gioielli, o per personalizzare prodotti come le protesi. Le corone dentali e gli auricolari per chi ha problemi di udito sono già prodotti a migliaia con le stampanti in 3D. Siccome deposita il materiale solo dove è necessario, la tecnologia è anche adatta a creare forme leggere e complesse per prodotti di grande valore, che vanno dai velivoli alle macchine da corsa. Ad esempio, GE ha speso un miliardo e mezzo di dollari in questa tecnologia per produrre pezzi per i motori dei jet.

Gli scettici però ancora prevalgono quando si tratta di merci prodotte su larga scala. Sostengono che le stampanti in 3D sono troppo costose e troppo lente; infatti possono impiegare 2 giorni per creare un oggetto complesso. A differenza delle tecniche introdotte da Kay, Olds e Ohno, si pensa che la manifattura additiva non rivoluzionerà mai la produzione di massa. Un tale scetticismo sembra sempre meno credibile.

Alcuni dei nuovi metodi ora emergenti della stampa in 3D dimostrano che i suoi inconvenienti possono essere superati. L’Adidas, per esempio, ha cominciato a usarne uno - si chiama Carbon e sfrutta la luce ultravioletta - per produrre le suole delle scarpette da ginnastica estraendole, completamente formate, da un contenitore di un polimero liquido. La tecnica sarà usata in alcune nuove fabbriche altamente automatizzate in Germania e in America per immettere sul mercato un milione di scarpe all’anno, in maniera più rapida rispetto ai procedimenti tradizionali. 

Come nelle precedenti rivoluzioni nella produzione, le fabbriche ci metteranno tempo per trasformarsi. L’abilità della mano umana, per esempio, ancora supera gli sforzi per introdurre la produzione completamente automatizzata dei tessuti. Ma l’automazione si sta diffondendo ad ogni linea di produzione in ogni Paese, e la stampa in 3D è parte di questa tendenza. Con l’aumentare dei salari in Cina, alcune delle sue linee di produzione di massa si stanno attrezzando non solo con i robot, ma anche con le prime stampanti in 3D. E con l’accorciarsi della catena di fornitura globale, gli industriali vorranno usare la manifattura additiva per personalizzare i prodotti adattandoli alle richieste dei consumatori locali. E’ difficile prevedere tutte le conseguenze della diffusione di questa tecnologia. Ma quando si manifesteranno con chiarezza, il nome di Hull potrà a buon diritto essere associato a quello di gente come Kay, Olds e Ohno.




sabato 24 giugno 2017

La teoria del mercato efficiente sta diventando più efficiente?


La teoria del mercato efficiente sta diventando più efficiente?


Trova un modo per superare il rendimento medio nel mercato azionario e costruiranno una ferrovia ad alta velocità per raggiungerti. Quando gli investitori tentano di centrare questo obiettivo, attingono al lavoro degli accademici. Ma nel fare così, stanno modificando sia i mercati, sia il modo in cui gli accademici li intendono.

L’idea che i mercati finanziari siano “efficienti” si è diffusa tra gli accademici negli anni ’60 e ’70. L’ipotesi sosteneva che tutte le informazioni, rilevanti per il valore di un asset, avrebbero avuto  istantaneamente un riflesso sul prezzo dello stesso asset; poco senso avrebbe avuto, quindi, negoziare sulla base di questi dati. Ciò che sposterebbe il prezzo sarebbero le informazioni/notizie future che, per definizione, non si possono conoscere in anticipo. I prezzi delle azioni seguirebbero un “andamento casuale”.  In effetti, il libro “A zonzo per Wall Street - A Random Walk Down Wall Street” è diventato un bestseller.

L’idea ha contribuito ad ispirare la creazione di fondi indicizzati, che semplicemente comprano tutte le azioni che rientrano in un indice come lo S&P 500. Dagli inizi modesti negli anni ’70, i fondi hanno guadagnato stabilmente quote di mercato ed oggi coprono circa il 20% di tutti gli asset gestiti. Variante sono gli ETF, nati nel 1993, e chiamati "trackers" (inseguitori) in gergo anglosassone.

L’ipotesi del mercato efficiente ha però subìto ripetutamente delle sfide. Quando il mercato borsistico americano crollò del 23% in un solo giorno, nell’ottobre del 1987, era difficile trovare una ragione per cui gli investitori avrebbero dovuto cambiare le loro convinzioni così rapidamente e sostanzialmente sul giusto valore dei titoli. Robert Shiller di Yale ha vinto il Nobel per l’Economia con un lavoro che dimostra che il mercato borsistico complessivo è molto più volatile di quanto dovrebbe essere se gli operatori valutassero adeguatamente i fondamentali: indovinare in anticipo se la quotazione di un certo titolo salirà o scenderà nel breve periodo risulta essere un compito difficile, al limite della divinazione, mentre in determinate circostanze è possibile fare previsioni di medio-lungo periodo. In uno dei suoi articoli scientifici più noti (intitolato “Is there a bubble in the housing market?”), Shiller in tempi non sospetti (l’articolo è stato pubblicato nel 2003) mette in guardia sull’inverosimilmente alto valore attribuito alle abitazioni sul mercato immobiliare statunitense (real estate US market). 

Un altro esempio di scollamento tra teoria e realtà si trova nel mercato valutario. Quando Sushil Wadhwani  lasciò la gestione di un hedge fund per entrare nel Comitato di Politica Monetaria della Banca d’Inghilterra nel 1999, rimase meravigliato dal modo in cui la banca prevedeva i movimenti di valuta. La banca si basava su una teoria definita “parità scoperta del tasso di interesse”, che afferma che il differenziale nel tasso d’interesse tra due Paesi riflette il previsto mutamento dei tassi di cambio. In realtà, questo significa che il tasso di cambio a termine nel mercato valutario era il miglior predittore delle variazioni dei tassi di cambio.

Wadhwani rimase sorpreso da questo approccio, poiché conosceva molte persone che usavano il cosiddetto “carry trade”, cioè prendere in prestito denaro in una valuta a basso rendimento e investirlo in una a rendimento più alto. Se la BoE avesse avuto ragione, una tale negoziazione sarebbe dovuta risultare infruttuosa. Dopo qualche discussione, la banca decise per un classico compromesso britannico: prevedeva che la valuta si sarebbe attestata a metà strada della distanza indicata dai tassi di cambio a termine.

In ultima analisi, c’era un difetto potenziale al cuore della teoria del mercato efficiente. Affinché le informazioni possano avere un riflesso sui prezzi, è necessario che ci siano transazioni. Ma perché le persone dovrebbero effettuarle se i loro sforzi sono destinati ad essere infruttuosi?

Secondo Antti Ilmanen, un ex accademico che adesso lavora per una società di gestione fondi, c’è l’idea che i mercati siano “efficientemente inefficienti”. In altre parole, il cittadino medio non ha speranze di guadagnarci col mercato. Ma se si dedica sufficiente capitale e abilità tecnologica allo sforzo, si può riuscire.

Ciò aiuta a comprendere l’ascesa degli investitori quantitativi o “quants”, che tentano di sfruttare le anomalie: stranezze che non possono essere spiegate dall’ipotesi del mercato efficiente. Un esempio è l’effetto momentum: le azioni che hanno ottenuto performances superiori nel recente passato continuano a fare così. Un altro effetto è quello della “bassa volatilità”: le azioni che si muovono meno significativamente rispetto al mercato producono migliori ritorni rettificati per il rischio di quanto preveda la teoria.

Una nuova tipologia di fondi, nota in gergo come “smart beta”, è emersa per sfruttare queste anomalie. Se questi fondi prospereranno dipenderà dalle ragioni per cui le anomalie sono state vantaggiose in passato. 
Ci sono tre possibilità.

La prima è che le anomalie siano stranezze statistiche : analizziamo i dati per un periodo di tempo sufficientemente lungo e scopriamo che le azioni rendono di più nei lunedì piovosi di aprile. Ma questo non significa che continueranno così.

La seconda possibilità è che i guadagni in eccesso siano la compensazione del rischio. Ad esempio le aziende più piccole possono avere guadagni notevoli ma le loro azioni sono meno liquide e quindi più difficili da vendere quando necessario; inoltre hanno maggiori probabilità di fallire.

La terza possibilità è che i guadagni riflettano qualche stranezza di comportamento. I guadagni notevoli delle azioni con effetto momentum ci possono essere stati perché gli investitori erano lenti a capire che le fortune di un’azienda erano migliorate. Ma il comportamento può cambiare;  infatti i prezzi delle azioni cambiano di più nel giorno dell’annuncio dei guadagni, rispetto ai giorni successivi, di quanto facessero 20 anni fa. In altre parole, gli investitori stanno reagendo più velocemente.

Se i mercati stanno cambiando, altrettanto si può dire degli accademici che li studiano. Molti lavori di ricerca si concentrano su anomalie  o su stranezze comportamentali che potrebbero indurre gli investitori a prendere decisioni apparentemente irrazionali. 

L’ipotesi dei mercati adattivi, avanzata da Andrew Lo del M.I.T., suggerisce che il mercato si sviluppa in modo simile all’evoluzione. In breve si basa sui principi base della teoria evoluzionistica e della biologia (vista in termini di competizione, mutazione, riproduzione, adattamento, sopravvivenza e selezione naturale) applicandoli ai mercati finanziari per analizzarli e descriverne in modo più realistico le dinamiche e i comportamenti degli investitori che operano in essi. Quindi i negoziatori e i gestori dei fondi seguono strategie che essi ritengono possano rivelarsi fruttuose; quelli che hanno successo continuano, quelli che perdono denaro restano tagliati fuori.

Nell’agosto 2007 ci fu un “quant quake “ quando le strategie computerizzate per un po’ smisero di funzionare; il sospetto era che un gestore stava scaricando le sue posizioni dopo aver avuto delle perdite nel mercato ipotecario. L’episodio indicava un pericolo dell’approccio quantitativo: se i computer stanno tutti movimentando gli stessi dati, probabilmente stanno comprando le stesse azioni. Al momento le azioni americane in crescita, come quelle delle aziende tecnologiche, sono tanto costose, in rapporto alle azioni value globali, quanto lo erano durante la bolla delle Dot.com. Che cosa accade se la tendenza cambia? Nessuna formula matematica, per quanto precisa, può trovare un acquirente per i titoli in portafoglio quando tutti sono nel panico.


sabato 27 maggio 2017

L’ economia irregolare dell’Africa sta regredendo.


L’ economia irregolare dell’Africa sta regredendo.


Secondo Adam Smith, è comune a tutti gli uomini “la propensione a muoversi, barattare e scambiare”. Meno comune è la volontà di dichiarare tutto questo alle autorità (che hanno una propensione a registrare, regolamentare e tassare). Gli “spaza shops” del Sud Africa - cioè minimarket spesso gestiti in casa -, i “jua kali” del Kenya  - termine Swahili che si riferisce al “caldo sole” sotto il quale gli artigiani tradizionalmente creavano e vendevano i loro prodotti -, o  gli ambulanti senegalesi - uniti nella fitta rete della confraternita dei Mouride - , contribuiscono tutti all'economia irregolare. Questa economia sommersa, che include imprese non registrate e attività in nero di aziende regolari, è difficile da quantificare, quasi per definizione. Ma il Fondo Monetario Internazionale recentemente ha reso note nuove stime sulla sua dimensione.

Gli economisti del Fondo hanno dedotto la portata dell’economia irregolare indirettamente, basandosi su indicatori più visibili che derivano da essa ovvero determinano irregolarità (tasse alte, forte disoccupazione e carenze nello stato di diritto). Le conseguenze includono un numero di persone sospettamente basso che lavorano ufficialmente o cercano lavoro, e una maggiore richiesta di moneta, poiché le aziende irregolari operano principalmente in contanti. Infine, il Fondo Monetario Internazionale ravvisa una traccia di attività che è difficile nascondere: il bagliore delle luci di un paese di notte, ripreso dai satelliti meteorologici.

Secondo i loro risultati, l’economia irregolare equivale a circa il 40% del PIL in un Paese medio dell’Africa sub-Sahariana. E’ una cifra considerevole, ma non tanto quanto lo era negli anni ’90 (circa il 45%). In verità il tasso d’irregolarità può essere ora più basso di quello dell’America Latina (la media africana nasconde un divario ampio, tra meno del 25% del PIL alle Mauritius e in Sud Africa a circa il 65% in Nigeria).

Alcuni politici vedono le imprese irregolari come parassiti che approfittano, a danno dei rivali scrupolosi che rispettano le regole e pagano le tasse. Altri le considerano ambiziose, capaci di incarnare lo spirito imprenditoriale  dei poveri e le loro speranze per il futuro. Spesso queste aziende non sono né l’una , né l’altra cosa. Sono semplicemente i datori di lavoro da ultima speranza, per persone con poche alternative. Nell'Africa sub-Sahariana, circa un terzo di coloro che avviano un’impresa lo fanno per necessità e non per scelta, una percentuale più alta che in altre economie emergenti. Molti si rifugiano nell'economia sommersa per sfuggire alla miseria, non alle regole o alla proletarizzazione.

sabato 29 aprile 2017

L’insolita differenza di rendimento tra le obbligazioni statunitensi e quelle europee


L’insolita differenza di rendimento  tra le obbligazioni statunitensi e quelle europee

L’America può anche essere la prima economia al mondo, ma in questi ultimi tempi il suo governo paga più di molti altri per il suo debito. I rendimenti dei bond decennali sono più alti di quelli della Gran Bretagna, della Francia, di Singapore e perfino dell’Italia.

Il gap tra i rendimenti a dieci anni americani e tedeschi ha anche superato i due punti percentuali. Per buona parte degli ultimi 25 anni, era raro che la differenza superasse un solo punto percentuale. Qualche volta, i rendimenti americani scendevano al di sotto dei livelli tedeschi.

Se si va indietro di una generazione, ci si sarebbe potuti aspettare che il Paese con i più alti rendimenti dei bond  fosse quello con la moneta più debole; gli investitori avrebbero chiesto un rendimento più alto per compensare il rischio di un deprezzamento futuro. Ma questo non si verifica, oggi. Il dollaro è già forte, in rapporto all’Euro, e molti si aspettano che si rafforzi ulteriormente. In verità, il maggior rendimento sul debito americano è una ragione per cui gli investitori potrebbero voler comprare il dollaro.

Invece, il gap può riflettere differenze di politica sia monetaria che fiscale.  In America la Federal Reserve ha smesso di acquistare bond del Tesoro già da un po’ di tempo ed ha aumentato i tassi d’interesse tre volte dal dicembre 2015; la Banca Centrale Europea (BCE) sta ancora comprando bond come parte del suo programma di alleggerimento quantitativo (“quantitative easing”) e paga un tasso negativo sui depositi. L’amministrazione Trump si è impegnata ad effettuare tagli alle tasse e spese per le infrastrutture che aumenterebbero il deficit di bilancio e richiederebbero un aumento nell’emissione di bond. L’Euro-zona non ha programmi di questo tipo per garantire uno stimolo fiscale.

L’attuale divergenza richiama quella tra i rendimenti dei bond americani e giapponesi. Questi ultimi sono stati notevolmente bassi per buona parte degli ultimi 20 anni, quando l’economia giapponese è rimasta impantanata nella crescita lenta e nella deflazione. Forse gli investitori si aspettano che l’Euro-zona resti bloccata nelle sabbie mobili della deflazione, mentre l’economia americana torni a crescere con più forza. Ma quest’idea non trova riscontro nelle aspettative d’inflazione.  Una misura usata spesso, derivata dal mercato obbligazionario, è nota come 5y5y = questa sigla indica il tasso swap sull’inflazione di pareggio a cinque anni su un orizzonte quinquennale. In pratica, il suo valore indica le attese degli investitori su quale sarà il tasso medio di inflazione fra 5 anni e per i successivi 5.  In America la previsione è intorno al 2,1%;  nella zona Euro è intorno all’1,7%. Sei mesi fa le previsioni erano dell’1,68% e dell’1,34%. Entrambe sono salite un po’, ma il gap non si è ampliato in maniera significativa.

Quindi è in gioco qualcosa di più della semplice economia.

Un fattore di cui tener conto può essere l’azione degli investitori istituzionali. Sia le compagnie di assicurazioni ramo vita, sia i fondi pensione tendono ad avere passività a lungo termine, cioè impegni cui devono far fronte nell'arco di più decenni.  Essi tentano di bilanciare quelle passività acquistando obbligazioni governative. Disposizioni contabili e normative spesso comportano che essi usino i rendimenti dei titoli obbligazionari a lungo termine per compensare le loro passività. Ma c’è una discrepanza: le passività di queste compagnie e fondi tendono ad avere una scadenza più lunga rispetto alle obbligazioni che detengono. Così quando i rendimenti delle obbligazioni a lungo termine calano, la loro posizione finanziaria peggiora. Ciò significa che hanno bisogno di comprare più titoli obbligazionari. Questo spinge in alto i prezzi - e i rendimenti ancora più in basso, peggiorando ulteriormente la situazione.

In ogni caso, i fattori che hanno ampliato lo spread tra i rendimenti americani e quelli tedeschi possono cominciare a dissolversi. Le preoccupazioni politiche possono placarsi se la Le Pen non vincerà; la Banca Centrale Europea può ridimensionare il suo alleggerimento monetario; i programmi incentivanti di Trump possono essere rinviati, o attenuati. 

Qualunque altra cosa la storia possa insegnarci, non ci dirà certo che i rendimenti tedeschi dello 0,37% a dieci anni  si riveleranno un affare.

sabato 1 aprile 2017

Chi perde quando la globalizzazione arretra?


Chi perde quando la globalizzazione arretra?

I nuovi nazionalismi avanzano in Europa e in America. Sostengono che la globalizzazione ha avvantaggiato le élites e ha penalizzato i lavoratori; inoltre che i governi dovrebbero mettere al primo posto l’America / la Gran Bretagna / la Francia. Questo significa favorire i produttori in Patria e restringere i flussi di persone, merci e (citato meno spesso) capitale. L’ultima decisione della Casa Bianca, qualche giorno fa, è stata alzare un muro all'import, con imposizione di dazi su tanti prodotti italiani (Vespa, San Pellegrino .... ) e di altri paesi europei.

Questi fatti potrebbero essere i prodromi che il mondo è entrato in una terza fase dell’economia dalla fine dell'ultima guerra mondiale, dopo quella degli accordi di Bretton Woods (dal 1945 agli inizi degli anni ’70) e della globalizzazione (dal 1982 al 2007), concluse, entrambe, con una crisi (una stagflazione negli anni ’70, una stretta creditizia dopo il 2008). La prossima fase potrebbe vedere la globalizzazione arretrare per la prima volta dal 1945.

Se volgiamo lo sguardo al passato, possiamo osservare che la globalizzazione ha sofferto una pesante battuta d’arresto dopo il 1914. Il commercio mondiale non si è ripreso, almeno in proporzione al PIL, fino agli anni ’90. Da sottolineare che il periodo compreso tra il 1914 e il 1945 è stato uno dei più bui della Storia mondiale, segnato da due guerre e dalla Grande Depressione (eventi che spiegano perché l’arretramento della globalizzazione è stato così grave).

E' indubbio che aprire un’economia al commercio globale dia grande impulso alla crescita, nel lungo periodo (come suggerito dal confronto Corea del Nord / Corea del Sud). Il problema - oggi - è che con la globalizzazione non tutti ci guadagnano; che questa volta i guadagni non sono distribuiti equamente.

Se andiamo indietro al periodo precedente il 1914, Paesi come gli Stati Uniti e l’Argentina avevano molta terra, ma poca manodopera; esportavano merci e importavano migranti dall'Europa (che aveva un surplus di manodopera e mancanza di terra). Quei lavoratori erano attratti da salari molto più alti e nel tempo questo portò a una riduzione del gap salariale. Ma questo fu mal tollerato dai lavoratori residenti nel Nuovo Mondo, tanto che l’America diede un giro di vite all'immigrazione, che diminuì notevolmente.

Nell'economia moderna, l’immigrazione viene favorita dal divario salariale tra i Paesi ricchi e quelli in via di sviluppo; così le persone originarie dell’America Latina si trasferiscono negli Stati Uniti; quelle provenienti dall'Europa dell’Est e dall'Africa si spostano nell'Europa Occidentale. Questo viene percepito come una minaccia da parte dei lavoratori non qualificati, sia in termini di pressione salariale sia in termini culturali. I lavoratori occidentali più istruiti, invece, possono trarre vantaggio dalla mobilità globale, essendo le loro qualifiche più richieste, e dunque tendono ad essere favorevoli alla globalizzazione – da qui la divisione dell’elettorato. 

Anche alcune aziende hanno avuto benefici : le multinazionali hanno una maggiore opportunità di integrarsi; scegliere la migliore combinazione di dove produrre, dove vendere, dove stabilire la loro sede legale. Questo ha portato ad una sorta di “corsa al ribasso” della tassazione sulle imprese poiché i Paesi competono per attrarre le aziende verso di loro. 

Questo nuovo sistema rende più difficile invertire la marcia. Il commercio globale non riguarda più la competizione dei prodotti di una nazione con quelli di un’altra: automobili italiane contro automobili giapponesi. Riguarda le “catene globali di valore” di vari produttori – FCA, Volkswagen, Apple, OVS... – che competono l’uno con l’altro. Queste "catene di valore" operano tra molti confini. Ad esempio, ogni dollaro di esportazioni messicane in America contiene 40 centesimi di merci prodotte in America. Imporre tariffe su queste merci sarebbe controproducente. Ma il solo fatto che una certa politica non abbia senso non garantisce che i politici non l’adotteranno. La tattica del bastone e della carota mirata a riportare in Patria le aziende americane avrebbe l’impatto più forte sui Paesi più esposti alla catena globale di valore. Secondo uno studio, i primi dieci sono, nell'ordine, Singapore, Belgio, Gran Bretagna, Olanda, Hong Kong, Svezia, Malesia, Germania, Corea del Sud e Francia.

Nei paesi sviluppati riportare le aziende a casa significherà aumentare i costi e quindi i prezzi, con un impatto soprattutto sul tenore di vita dei lavoratori non qualificati. Si potrebbe argomentare questo aspetto è compensato dal ritorno in patria dei posti di lavoro più remunerativi : questo è il problema. A meno che il commercio mondiale non si esaurisca completamente (devastando l’economia di tutti, come negli anni ’30), le aziende dovranno affrontare ancora la competizione estera. Così potranno/dovranno sostituire i lavoratori stranieri non con quelli interni, ma con i robot.

La sostituzione dei lavoratori con le macchine (si pensi alla stampa in 3D, o alle auto e ai camion con conducente automatico) renderà i lavoratori non qualificati ancora più arrabbiati, siccome non saranno i vincitori della de-globalizzazione, dando ancora più forza ai partiti nazionalisti. E, proprio come negli anni ’30, è facile prevedere come risultato una spirale autodistruttiva di “politiche del rubamazzo”. Cioè, un disastro. Anche per i mercati.

sabato 4 marzo 2017

Le fluttuazioni di mercato nell’Eurozona


Le fluttuazioni di mercato nell'Eurozona

Non è stato un bel modo di festeggiare le nozze d’argento. Il 25° anniversario della firma del Trattato di Maastricht, che diede vita all'idea di una moneta unica europea, è caduto il 7 febbraio, lo stesso giorno in cui il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato il suo rapporto annuale sull'economia della Grecia.  Esso riportava che la maggior parte (ma non la totalità) del Consiglio era favorevole ad una maggiore riduzione del debito della Grecia, per tenerne in ordine le finanze – un’idea rapidamente accantonata dai funzionari dell’Euro-zona.

Il giorno prima, lo spread tra i bond governativi decennali in Francia e in Germania aveva raggiunto il livello più alto degli ultimi quattro anni. La causa più immediata sembrava essere la crescente preoccupazione sui rischi politici dell’Euro. François Fillon, una volta uomo di punta nella corsa alla Presidenza francese, è coinvolto in uno scandalo e sta perdendo terreno. Si teme che la sua caduta in disgrazia possa alimentare il sostegno a Marine Le Pen, leader del Fronte Nazionale, che propugna l’uscita della Francia dall'Euro e dall'Unione Europea.

Tuttavia  dietro le fluttuazioni dei bond dell’area Euro nell'ultimo periodo c’è più che la sola attenzione alla politica. Dopo tutto, i mercati hanno minimizzato le dimissioni di Matteo Renzi a dicembre. “Non credo che ci sia un rischio politico in Europa più alto di quanto fosse un mese fa, o tre mesi fa” dichiara un esperto analista presso un grande Fondo. 

Una grande influenza, invece, può avere la crescente convinzione che la Banca Centrale Europea deciderà presto di ridimensionare il suo programma di “Quantitative Easing” (QE).

La Banca Centrale Europea ha annunciato a dicembre che da aprile avrebbe ridotto l’acquisto mensile di bond, da 80 miliardi di Euro a 60 miliardi. Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, ribadiva che non si trattava di una riduzione che intendesse portare gradualmente gli acquisti a zero. Ma dai verbali della riunione della BCE tenutasi a dicembre si evince che il QE si sta avviando ad un punto morto. Si riconosce, per esempio, che c’erano rischi legali nell'accantonare la regola auto-imposta per cui la BCE non dovrebbe comprare più di un terzo del debito di ogni Paese. Questa regola pone un tetto ai Bund tedeschi che la Banca Centrale può acquistare, poiché la Germania ha un debito in riduzione. Questo è rilevante, perché la Germania ha anche la più grande economia dell’Euro-zona e gli acquisti di bond sono proporzionati al peso economico. Si andrebbe incontro a un diffuso malcontento se la BCE decidesse di comprare in proporzione più bond dei Paesi ad alto debito come l’Italia – o anche la Francia.

Ci sono altri motivi di credere che la BCE stia andando verso una riduzione del QE. L’economia dell’Eurozona  è in una fase interlocutoria. Sebbene l'inflazione core, che esclude i prezzi volatili di cibo ed energia, sia ferma sotto l’1%, l’inflazione complessiva è salita decisamente e continuerà a farlo in primavera, dal momento che la forte caduta dei prezzi del petrolio registrata l’anno scorso non rientra nel tasso annuale. Il programma di QE fu concepito quando la deflazione era molto temuta. Ora che il rischio è diminuito, è più difficile per la BCE giustificare ulteriori forti acquisti di titoli, anche qualora ci fossero bond idonei da comprare.

La tendenza è chiara, e questo solleva una domanda: in mancanza di acquisti da parte della BCE, qual è il giusto spread e il rendimento dei titoli di Stato di Francia, Italia, Spagna e degli altri Paesi? E’ una considerazione di questo tipo che sta dietro la generale corsa al rialzo degli spread nell'Euro-zona nelle ultime settimane. Per ora non sembrano eccessivi. Ma se ci saranno ulteriori segnali di un ridimensionamento del QE, aspettiamoci che aumentino ancora, a prescindere dalla politica.

sabato 11 febbraio 2017

L’India lancia l’idea di un reddito di base universale


L’India lancia l’idea di un reddito di base universale

L’ 8 novembre non è stato solo il giorno dell’elezione di Donald Trump. E’ stato anche il giorno in cui gli Indiani hanno scoperto che la maggior parte delle banconote avrebbero perso ogni valore se non cambiate prontamente.  Da allora, molti si aspettano che la loro pazienza nel sopportare il caos conseguente venga ricompensata in qualche modo.  Il contante “rottamato” non versato dai presunti evasori potrebbe essere impiegato in un pagamento in unica soluzione a ciascun cittadino? O il bilancio annuale di previsione, presentato il primo febbraio, potrebbe essere pieno di elargizioni in vista di una serie di elezioni politiche? Alla fine, il budget è stato ridotto all’osso. Ma l’attenta “indagine economica” del governo, resa nota il giorno prima, accennava ad un omaggio ben più consistente in programma: un reddito di base universale destinato ad ogni singolo Indiano.

L’idea di un erogare contanti ai cittadini senza tener conto della loro  condizione economica è vecchia di secoli. E’ tornata in auge di recente in alcuni Paesi ricchi, sia tra gli intellettuali di sinistra (che apprezzano i suoi aspetti redistributivi), sia tra gli avversari di destra (che pensano possa portare ad una minore interferenza dello Stato). 

L’idea ha avuto i suoi sostenitori in India.

La sua inclusione nel rapporto annuale, terreno di coltura per le politiche sociali, redatto dal principale consigliere economico del governo, il prof.A. Subramanian, fornisce un nuovo campo di riflessione sia per i sostenitori della misura, sia per i suoi oppositori. Un reddito di base universale di solito viene discusso in termini astratti. Ora si propone un importo preciso: 7.620 rupie all’anno ($113). Equivalgono a meno del salario mensile minimo di un lavoratore di città, ben al di sotto di quanto sarebbe necessario per condurre una vita dignitosa. Ma ridurrebbe drasticamente la povertà assoluta dal 22% a meno dello 0,5%. I vantaggi del reddito di base universale sono evidenti.

Subramanian delinea anche un quadro di come reperire le coperture. Essenzialmente, il denaro dovrebbe provenire dal reimpiego di fondi dei circa 950 progetti di welfare già esistenti, inclusi quelli che offrono sussidi per il cibo, l’acqua, i fertilizzanti e molto altro ancora. Tutti insieme questi ammontano a circa il 5% del PIL, che è quanto egli ritiene possa costare la sua versione del reddito di base. Cominciare invece un programma simile da zero assorbirebbe circa la metà del budget annuale del governo centrale, tanto è pietoso lo stato del gettito delle imposte dirette in India.

L’India è desiderosa in teoria di aiutare i suoi poveri, ma non sa farlo in concreto. Oggi molti dei sussidi finiscono nelle mani di persone relativamente ricche, che magari possono permettersi di viaggiare in treni con l’aria condizionata o di usare il gas da cucina, in grado di corrompere i burocrati che hanno il compito di decidere a chi assegnare i sussidi. Compensi  “in natura” vengono rubacchiati da intermediari che troverebbero più difficile accedere ai pagamenti effettuati sui conti bancari dei beneficiari.

Subramanian riconosce che sarebbe difficile gestire la transizione ad un nuovo sistema. In gran parte dell’India, i cittadini devono percorrere almeno 3 km per raggiungere una banca. I pagamenti digitali sono ancora una scelta minoritaria. Inoltre, un vantaggio della proliferazione dei progetti di welfare è che se uno di loro non va a buon fine, altri potrebbero.

Un altro ostacolo è che anche un buon numero di milionari beneficerebbero di un reddito di base veramente universale. Dire ad un agricoltore poco istruito che il progetto che ha usato per decenni viene abolito per finanziare un programma che lo metterà sullo stesso piano di un magnate che vive in una casa di 27 piani, non porterebbe voti.  In verità, la proposta di Subramanian si ferma un po’ prima della vera universalità: perché  le  cifre quadrino, l’applicazione deve essere limitata al 75% degli Indiani. Ciò significa o un ritorno all’aleatorio accertamento delle condizioni economiche, o una speranza che i più abbienti rinuncino volontariamente.

Attuare un reddito di base universale sarebbe più facile in India essenzialmente in un modo: dando i soldi direttamente ai beneficiari. Oltre un miliardo di Indiani oggi hanno delle carte d’identità biometriche, note come Aadhaar. Il sistema può gestire denaro, di solito riversando i pagamenti in entrata su un conto bancario collegato ad un numero Aadhar. Un’erogazione di  contante a tutti i cittadini iscritti al progetto sarebbe una via praticabile per distribuire il denaro – sebbene questo comporti che ognuno riceve qualcosa, inclusi i più benestanti.

Ci vorrà tempo prima che 1,3 miliardi di Indiani ricevano questi soldi. Per quanto Subramanian sia entusiasta, conclude che il reddito universale è “un’idea forte il cui tempo non è ancora maturo per la sua attuazione, ma lo è quanto meno per una seria discussione”.

Per ora il governo è concentrato sul suo antico obiettivo del deficit al 3%, che si aspetta di mancare di 0,2 punti percentuali l’anno prossimo, e sulle conseguenze della “demonetizzazione”. Ma l’idea non verrà accantonata, siccome sarebbe un modo rapido ed efficace per diminuire notevolmente la povertà.