sabato 24 giugno 2017

La teoria del mercato efficiente sta diventando più efficiente?


La teoria del mercato efficiente sta diventando più efficiente?


Trova un modo per superare il rendimento medio nel mercato azionario e costruiranno una ferrovia ad alta velocità per raggiungerti. Quando gli investitori tentano di centrare questo obiettivo, attingono al lavoro degli accademici. Ma nel fare così, stanno modificando sia i mercati, sia il modo in cui gli accademici li intendono.

L’idea che i mercati finanziari siano “efficienti” si è diffusa tra gli accademici negli anni ’60 e ’70. L’ipotesi sosteneva che tutte le informazioni, rilevanti per il valore di un asset, avrebbero avuto  istantaneamente un riflesso sul prezzo dello stesso asset; poco senso avrebbe avuto, quindi, negoziare sulla base di questi dati. Ciò che sposterebbe il prezzo sarebbero le informazioni/notizie future che, per definizione, non si possono conoscere in anticipo. I prezzi delle azioni seguirebbero un “andamento casuale”.  In effetti, il libro “A zonzo per Wall Street - A Random Walk Down Wall Street” è diventato un bestseller.

L’idea ha contribuito ad ispirare la creazione di fondi indicizzati, che semplicemente comprano tutte le azioni che rientrano in un indice come lo S&P 500. Dagli inizi modesti negli anni ’70, i fondi hanno guadagnato stabilmente quote di mercato ed oggi coprono circa il 20% di tutti gli asset gestiti. Variante sono gli ETF, nati nel 1993, e chiamati "trackers" (inseguitori) in gergo anglosassone.

L’ipotesi del mercato efficiente ha però subìto ripetutamente delle sfide. Quando il mercato borsistico americano crollò del 23% in un solo giorno, nell’ottobre del 1987, era difficile trovare una ragione per cui gli investitori avrebbero dovuto cambiare le loro convinzioni così rapidamente e sostanzialmente sul giusto valore dei titoli. Robert Shiller di Yale ha vinto il Nobel per l’Economia con un lavoro che dimostra che il mercato borsistico complessivo è molto più volatile di quanto dovrebbe essere se gli operatori valutassero adeguatamente i fondamentali: indovinare in anticipo se la quotazione di un certo titolo salirà o scenderà nel breve periodo risulta essere un compito difficile, al limite della divinazione, mentre in determinate circostanze è possibile fare previsioni di medio-lungo periodo. In uno dei suoi articoli scientifici più noti (intitolato “Is there a bubble in the housing market?”), Shiller in tempi non sospetti (l’articolo è stato pubblicato nel 2003) mette in guardia sull’inverosimilmente alto valore attribuito alle abitazioni sul mercato immobiliare statunitense (real estate US market). 

Un altro esempio di scollamento tra teoria e realtà si trova nel mercato valutario. Quando Sushil Wadhwani  lasciò la gestione di un hedge fund per entrare nel Comitato di Politica Monetaria della Banca d’Inghilterra nel 1999, rimase meravigliato dal modo in cui la banca prevedeva i movimenti di valuta. La banca si basava su una teoria definita “parità scoperta del tasso di interesse”, che afferma che il differenziale nel tasso d’interesse tra due Paesi riflette il previsto mutamento dei tassi di cambio. In realtà, questo significa che il tasso di cambio a termine nel mercato valutario era il miglior predittore delle variazioni dei tassi di cambio.

Wadhwani rimase sorpreso da questo approccio, poiché conosceva molte persone che usavano il cosiddetto “carry trade”, cioè prendere in prestito denaro in una valuta a basso rendimento e investirlo in una a rendimento più alto. Se la BoE avesse avuto ragione, una tale negoziazione sarebbe dovuta risultare infruttuosa. Dopo qualche discussione, la banca decise per un classico compromesso britannico: prevedeva che la valuta si sarebbe attestata a metà strada della distanza indicata dai tassi di cambio a termine.

In ultima analisi, c’era un difetto potenziale al cuore della teoria del mercato efficiente. Affinché le informazioni possano avere un riflesso sui prezzi, è necessario che ci siano transazioni. Ma perché le persone dovrebbero effettuarle se i loro sforzi sono destinati ad essere infruttuosi?

Secondo Antti Ilmanen, un ex accademico che adesso lavora per una società di gestione fondi, c’è l’idea che i mercati siano “efficientemente inefficienti”. In altre parole, il cittadino medio non ha speranze di guadagnarci col mercato. Ma se si dedica sufficiente capitale e abilità tecnologica allo sforzo, si può riuscire.

Ciò aiuta a comprendere l’ascesa degli investitori quantitativi o “quants”, che tentano di sfruttare le anomalie: stranezze che non possono essere spiegate dall’ipotesi del mercato efficiente. Un esempio è l’effetto momentum: le azioni che hanno ottenuto performances superiori nel recente passato continuano a fare così. Un altro effetto è quello della “bassa volatilità”: le azioni che si muovono meno significativamente rispetto al mercato producono migliori ritorni rettificati per il rischio di quanto preveda la teoria.

Una nuova tipologia di fondi, nota in gergo come “smart beta”, è emersa per sfruttare queste anomalie. Se questi fondi prospereranno dipenderà dalle ragioni per cui le anomalie sono state vantaggiose in passato. 
Ci sono tre possibilità.

La prima è che le anomalie siano stranezze statistiche : analizziamo i dati per un periodo di tempo sufficientemente lungo e scopriamo che le azioni rendono di più nei lunedì piovosi di aprile. Ma questo non significa che continueranno così.

La seconda possibilità è che i guadagni in eccesso siano la compensazione del rischio. Ad esempio le aziende più piccole possono avere guadagni notevoli ma le loro azioni sono meno liquide e quindi più difficili da vendere quando necessario; inoltre hanno maggiori probabilità di fallire.

La terza possibilità è che i guadagni riflettano qualche stranezza di comportamento. I guadagni notevoli delle azioni con effetto momentum ci possono essere stati perché gli investitori erano lenti a capire che le fortune di un’azienda erano migliorate. Ma il comportamento può cambiare;  infatti i prezzi delle azioni cambiano di più nel giorno dell’annuncio dei guadagni, rispetto ai giorni successivi, di quanto facessero 20 anni fa. In altre parole, gli investitori stanno reagendo più velocemente.

Se i mercati stanno cambiando, altrettanto si può dire degli accademici che li studiano. Molti lavori di ricerca si concentrano su anomalie  o su stranezze comportamentali che potrebbero indurre gli investitori a prendere decisioni apparentemente irrazionali. 

L’ipotesi dei mercati adattivi, avanzata da Andrew Lo del M.I.T., suggerisce che il mercato si sviluppa in modo simile all’evoluzione. In breve si basa sui principi base della teoria evoluzionistica e della biologia (vista in termini di competizione, mutazione, riproduzione, adattamento, sopravvivenza e selezione naturale) applicandoli ai mercati finanziari per analizzarli e descriverne in modo più realistico le dinamiche e i comportamenti degli investitori che operano in essi. Quindi i negoziatori e i gestori dei fondi seguono strategie che essi ritengono possano rivelarsi fruttuose; quelli che hanno successo continuano, quelli che perdono denaro restano tagliati fuori.

Nell’agosto 2007 ci fu un “quant quake “ quando le strategie computerizzate per un po’ smisero di funzionare; il sospetto era che un gestore stava scaricando le sue posizioni dopo aver avuto delle perdite nel mercato ipotecario. L’episodio indicava un pericolo dell’approccio quantitativo: se i computer stanno tutti movimentando gli stessi dati, probabilmente stanno comprando le stesse azioni. Al momento le azioni americane in crescita, come quelle delle aziende tecnologiche, sono tanto costose, in rapporto alle azioni value globali, quanto lo erano durante la bolla delle Dot.com. Che cosa accade se la tendenza cambia? Nessuna formula matematica, per quanto precisa, può trovare un acquirente per i titoli in portafoglio quando tutti sono nel panico.