Qual è il modo giusto di investire, nel lungo termine?
Troppe persone guardano ai rendimenti passati, scegliendo gestori di fondi con un buon rating ovvero preferendo gli asset - comparti di investimento - che recentemente hanno fatto bene. Proprio come non ci si può basare sull’affidabilità dei gestori fondi, così le performance degli asset sono fortemente variabili.
Inoltre, bisogna considerare che quanto più alto è il prezzo iniziale dell’investimento, tanto più bassi saranno, probabilmente, i guadagni futuri.
Questo è abbastanza chiaro con le obbligazioni governative. Chiunque acquisti un’obbligazione con rendimento del 2% e la conservi fino alla scadenza, si può aspettare al massimo quel livello di guadagno nominale (quello reale dipende dal livello di inflazione) e non di più. In verità, a voler essere pignoli, c’è anche una qualche probabilità che un governo possa essere inadempiente, come ci ricorda la vicenda dei titoli di stato argentini.
Con i titoli azionari, i calcoli non sono così semplici. Tuttavia, probabilmente comprare azioni con un basso rendimento da dividendi, o con multipli (price earnings ratio) elevati, porterà a guadagni più bassi del normale.
Un approccio ragionevole agli investimenti a lungo termine determina i potenziali guadagni dalle varie categorie di asset sulla base delle loro valutazioni e dei fondamentali, ripartendo il portafoglio conseguentemente. In pratica, si cerca di fare valutazioni sensate sui fattori fondamentali che generano guadagni, ritenendo che le valutazioni torneranno ai livelli medi nel medio periodo.
In effetti, evidenze empiriche provano che questa procedura si è dimostrata affidabile. Gli asset che si pensava avrebbero avuto buone performance hanno dato guadagni relativamente alti; quelli che invece venivano accreditati di brutte prestazioni hanno offerto rendimenti bassi. Ma se la classificazione degli asset tra sopravvalutati e sottovalutati è stata giusta, non altrettanto si può dire del livello di guadagno/perdita. Gli asset che si riteneva avrebbero avuto un rendimento negativo compreso tra il -8 e il -10%, per esempio, hanno in realtà sofferto perdite più contenute, soltanto del 2,8%.
Le previsioni sono state abbastanza accurate per le categorie di asset quali le obbligazioni dei mercati emergenti e le azioni diverse da quelle americane; i rendimenti annuali si sono attestati entro il punto e mezzo percentuale dalle previsioni. Ma per i titoli americani, la stima è stata troppo pessimista, sottostimando i rendimenti di circa 4 punti percentuali all’anno.
La ragione di questo errore è abbastanza chiara. I valori dei titoli non sono rientrati nella media, ma sono rimasti considerevolmente al di sopra dei loro livelli storici. Se era abbastanza precisa la previsione sulla crescita dei dividendi, l’imprecisione della stima del valore ha determinato l’inesattezza della previsione.
Ci sono due conclusioni possibili: una è che l’idea sul rientro nei valori medi è errata, perché i titoli sono saliti ad un nuovo livello di valutazione, più alto. Questo suona strano, come la famosa frase dell’economista Irving Fisher secondo cui, poco prima del crollo del 1929, Wall Street aveva raggiunto un «livello permanente di alte quotazioni». Ma c’è una giustificazione per il cambio di valutazione: i profitti americani sono stati alti, in rapporto al PIL, per un lungo periodo di tempo. Questo può essere un risultato del potere monopolistico di alcune industrie, o forse del ridotto potere contrattuale dei lavoratori in un’epoca di globalizzazione.
Una tesi più ragionevole è che, con i rendimenti così bassi delle obbligazioni governative e non, gli investitori sono disposti a pagare un prezzo più alto per i titoli azionari perché rappresentano la loro unica speranza di guadagni decenti. Ma dato il basso livello dei dividendi e la lentezza della crescita economica, i profitti dovranno continuare a salire in proporzione al PIL per consentire che i rendimenti delle azioni continuino ad essere alti. Nel lungo periodo ciò - francamente - appare improbabile.
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