sabato 1 aprile 2017

Chi perde quando la globalizzazione arretra?


Chi perde quando la globalizzazione arretra?

I nuovi nazionalismi avanzano in Europa e in America. Sostengono che la globalizzazione ha avvantaggiato le élites e ha penalizzato i lavoratori; inoltre che i governi dovrebbero mettere al primo posto l’America / la Gran Bretagna / la Francia. Questo significa favorire i produttori in Patria e restringere i flussi di persone, merci e (citato meno spesso) capitale. L’ultima decisione della Casa Bianca, qualche giorno fa, è stata alzare un muro all'import, con imposizione di dazi su tanti prodotti italiani (Vespa, San Pellegrino .... ) e di altri paesi europei.

Questi fatti potrebbero essere i prodromi che il mondo è entrato in una terza fase dell’economia dalla fine dell'ultima guerra mondiale, dopo quella degli accordi di Bretton Woods (dal 1945 agli inizi degli anni ’70) e della globalizzazione (dal 1982 al 2007), concluse, entrambe, con una crisi (una stagflazione negli anni ’70, una stretta creditizia dopo il 2008). La prossima fase potrebbe vedere la globalizzazione arretrare per la prima volta dal 1945.

Se volgiamo lo sguardo al passato, possiamo osservare che la globalizzazione ha sofferto una pesante battuta d’arresto dopo il 1914. Il commercio mondiale non si è ripreso, almeno in proporzione al PIL, fino agli anni ’90. Da sottolineare che il periodo compreso tra il 1914 e il 1945 è stato uno dei più bui della Storia mondiale, segnato da due guerre e dalla Grande Depressione (eventi che spiegano perché l’arretramento della globalizzazione è stato così grave).

E' indubbio che aprire un’economia al commercio globale dia grande impulso alla crescita, nel lungo periodo (come suggerito dal confronto Corea del Nord / Corea del Sud). Il problema - oggi - è che con la globalizzazione non tutti ci guadagnano; che questa volta i guadagni non sono distribuiti equamente.

Se andiamo indietro al periodo precedente il 1914, Paesi come gli Stati Uniti e l’Argentina avevano molta terra, ma poca manodopera; esportavano merci e importavano migranti dall'Europa (che aveva un surplus di manodopera e mancanza di terra). Quei lavoratori erano attratti da salari molto più alti e nel tempo questo portò a una riduzione del gap salariale. Ma questo fu mal tollerato dai lavoratori residenti nel Nuovo Mondo, tanto che l’America diede un giro di vite all'immigrazione, che diminuì notevolmente.

Nell'economia moderna, l’immigrazione viene favorita dal divario salariale tra i Paesi ricchi e quelli in via di sviluppo; così le persone originarie dell’America Latina si trasferiscono negli Stati Uniti; quelle provenienti dall'Europa dell’Est e dall'Africa si spostano nell'Europa Occidentale. Questo viene percepito come una minaccia da parte dei lavoratori non qualificati, sia in termini di pressione salariale sia in termini culturali. I lavoratori occidentali più istruiti, invece, possono trarre vantaggio dalla mobilità globale, essendo le loro qualifiche più richieste, e dunque tendono ad essere favorevoli alla globalizzazione – da qui la divisione dell’elettorato. 

Anche alcune aziende hanno avuto benefici : le multinazionali hanno una maggiore opportunità di integrarsi; scegliere la migliore combinazione di dove produrre, dove vendere, dove stabilire la loro sede legale. Questo ha portato ad una sorta di “corsa al ribasso” della tassazione sulle imprese poiché i Paesi competono per attrarre le aziende verso di loro. 

Questo nuovo sistema rende più difficile invertire la marcia. Il commercio globale non riguarda più la competizione dei prodotti di una nazione con quelli di un’altra: automobili italiane contro automobili giapponesi. Riguarda le “catene globali di valore” di vari produttori – FCA, Volkswagen, Apple, OVS... – che competono l’uno con l’altro. Queste "catene di valore" operano tra molti confini. Ad esempio, ogni dollaro di esportazioni messicane in America contiene 40 centesimi di merci prodotte in America. Imporre tariffe su queste merci sarebbe controproducente. Ma il solo fatto che una certa politica non abbia senso non garantisce che i politici non l’adotteranno. La tattica del bastone e della carota mirata a riportare in Patria le aziende americane avrebbe l’impatto più forte sui Paesi più esposti alla catena globale di valore. Secondo uno studio, i primi dieci sono, nell'ordine, Singapore, Belgio, Gran Bretagna, Olanda, Hong Kong, Svezia, Malesia, Germania, Corea del Sud e Francia.

Nei paesi sviluppati riportare le aziende a casa significherà aumentare i costi e quindi i prezzi, con un impatto soprattutto sul tenore di vita dei lavoratori non qualificati. Si potrebbe argomentare questo aspetto è compensato dal ritorno in patria dei posti di lavoro più remunerativi : questo è il problema. A meno che il commercio mondiale non si esaurisca completamente (devastando l’economia di tutti, come negli anni ’30), le aziende dovranno affrontare ancora la competizione estera. Così potranno/dovranno sostituire i lavoratori stranieri non con quelli interni, ma con i robot.

La sostituzione dei lavoratori con le macchine (si pensi alla stampa in 3D, o alle auto e ai camion con conducente automatico) renderà i lavoratori non qualificati ancora più arrabbiati, siccome non saranno i vincitori della de-globalizzazione, dando ancora più forza ai partiti nazionalisti. E, proprio come negli anni ’30, è facile prevedere come risultato una spirale autodistruttiva di “politiche del rubamazzo”. Cioè, un disastro. Anche per i mercati.

Nessun commento:

Posta un commento