La forza del dollaro è un problema mondiale
Quando gli economisti ripercorrono gli anni successivi alla crisi finanziaria globale, possono individuare il momento esatto in cui il boom dei prestiti esteri in dollari ha raggiunto l'apice. Era il settembre 2012, quando lo Zambia emise il suo primo Eurobond in dollari, con un rendimento del 5,4% ricevendo ordini per 12 miliardi di dollari ? Forse era un anno dopo, quando gli investitori si sono accaparrati 850 milioni di dollari di Eurobond emessi da un’azienda statale del Mozambico, attiva nella pesca del tonno. Nel frattempo, era il maggio del 2013, Petrobras - azienda petrolifera brasiliana - aveva emesso bond decennali per 11 miliardi di dollari, un record per un’azienda emergente, con un rendimento generosamente basso al 4,35%.
Tra il 9 novembre, data dell’elezione di Donald Trump in America, e la Festa del Ringraziamento, il dollaro è salito del 3% rispetto ad un paniere di valute dei Paesi avanzati. Un tale rimbalzo in un tempo così breve è un evento raro. Proprio la corsa ai prestiti in dollari in questi ultimi anni aiuta a spiegare perché il biglietto verde ha avuto un rimbalzo così netto.
Alla fine dell’anno scorso, i governi e le aziende fuori dagli Usa avevano accumulato debiti per 9,7 trilioni di dollari, secondo la BRI (Banca dei Regolamenti Internazionali). Di questi, 3.3 trilioni erano iscritti a bilancio tra i debiti di aziende emergenti. In Paesi con debiti in valuta estera, il tasso di cambio funge da amplificatore finanziario. Debiti in dollari equivalgono ad una posizione corta; e quando arriva uno shock, la corsa alla copertura spinge in alto il dollaro.
L’ultima spinta al dollaro ha una causa prossima. Gli investitori si aspettano che Trump trovi un accordo con il Congresso sui tagli alle tasse delle società e sugli aumenti delle spese per le infrastrutture. Un taglio fiscale può spingere la Federal Reserve ad aumentare i tassi d’interesse più rapidamente, attirando il rientro di capitali in America e rialzando il dollaro. Se i tagli alle tasse delle società spingeranno le multinazionali a rimpatriare i guadagni che hanno all’estero, questo sosterrà ulteriormente il dollaro.
Inoltre, la politica monetaria in Giappone e nell’area Euro rimarrà accomodante. Infatti l'8 dicembre scorso la Banca Centrale Europea ha deciso di estendere il suo programma di acquisto di bond, anche se ha ridotto l'ammontare mensile.
Se un dollaro forte è ben accolto a Tokyo e a Francoforte, non altrettanto si può dire dei mercati emergenti, almeno per tre ragioni.
In primo luogo, forti cali delle valute emergenti mettono pressione alle banche centrali perché innalzino i tassi d’interesse, sia per impedire un ulteriore deprezzamento, sia per contenere la conseguente inflazione. La banca centrale della Turchia, per esempio, ha alzato i tassi d’interesse il 24 novembre in risposta ad un crollo della lira al minimo storico nei confronti del dollaro.
Secondariamente, un dollaro più forte ha anche un impatto indiretto sulle condizioni del credito nei mercati emergenti. Uno studio ha rivelato che le aziende dei mercati emergenti che si indebitano in dollari a loro volta concedono prestiti all'interno del loro paese. Quando il dollaro era debole, queste aziende prendevano prestiti liberamente nei mercati globali. Un dollaro più forte, al contrario, provoca una generale stretta creditizia nei mercati emergenti.
Un terzo effetto deriva dall’eredità dei passati prestiti in dollari. Quando le aziende si affrettano ad estinguere i loro debiti in dollari è probabile che debbano tagliare su investimenti e occupazione.
Infine, guardando al passato, l’aumento del 50% del dollaro tra il 1980 e il 1985 fu brutale per gli esportatori americani. La pressione per l’innalzamento delle barriere commerciali fu solo alleggerita dall’Accordo del Plaza nel 1985, un patto tra i Paesi ricchi per indebolire il dollaro. La più grande preoccupazione sull’ultima ripresa del dollaro è che possa scatenare conflitti, anziché promuovere accordi. Trump sembra fin troppo smanioso di ricorrere al protezionismo nel malaccorto tentativo di equilibrare il commercio americano. Ed un dollaro più forte potrebbe innescare una mossa così disastrosa.
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