Come si dovrebbero affrontare le recessioni
quando i tassi d’interesse sono bassi?
Un giorno, forse abbastanza vicino, accadrà. Irromperà la tempesta delle cattive notizie: l’impennata del prezzo del petrolio, il panico nei mercati o un timore indefinito e generalizzato. I governi si accorgeranno del pericolo troppo tardi. Comincerà una nuova recessione. Una volta, la risposta sarebbe stata prevedibile: le banche centrali si sarebbero dovute mettere in azione, tagliando i tassi d’interesse per favorire prestiti e investimenti. Ma durante la crisi finanziaria, e dopo quattro decenni di calo dei tassi d’interesse e dell’inflazione, è accaduto l’inevitabile. I tassi, così abilmente manovrati dalle banche centrali, sono scesi a zero, lasciando che i responsabili delle politiche economiche si aggrappassero a soluzioni alternative, incerte. A dieci anni di distanza, nonostante un dibattito approfondito, gli economisti non riescono a trovare un punto d’accordo su come affrontare un simile scenario.
Nella prossima recessione, il “livello zero” dei tassi d’interesse certamente farà sentire di nuovo il suo peso. Quando lo farà, le banche centrali ricorreranno a strumenti tarati sulle crisi, come il “quantitative easing” (l’alleggerimento quantitativo, cioè l’immissione di liquidità per l’acquisto di bond) e le promesse di mantenere bassi i tassi per molto tempo. Tali politiche si riveleranno meno efficaci che in passato; gli acquisti di bond sono meno utili, per esempio, quando i tassi d’interesse a lungo termine sono già bassi. In mancanza di un solido consenso sulle politiche, l’uso di uno strumento poco ortodosso sarà probabilmente insufficiente per innescare una rapida ripresa.
A grandi linee, gli economisti vedono due possibili vie d’uscita.
Una è cambiare strategia monetaria. Ben Bernanke, Presidente della Federal Reserve durante la crisi, ha proposto un approccio innovativo: quando l’economia si troverà di nuovo al “livello zero” dei tassi d’interesse, la banca centrale dovrebbe fissare rapidamente un obiettivo temporaneo di livello dei prezzi. Cioè, dovrebbe promettere di compensare i cali dell’inflazione che derivano da una crisi. Se una recessione provoca una discesa dell’inflazione sotto l'obiettivo per un anno, la banca centrale dovrebbe impegnarsi a tollerare un’inflazione superiore a quel limite finché i prezzi non raggiungeranno il livello che avrebbero avuto senza il crollo.
Se credibile, quella promessa dovrebbe portare entusiasmo, incoraggiare la spesa, e rimettere in salute l’economia. Far salire i livelli d’inflazione ridurrebbe la frequenza e la gravità degli episodi di tassi d’interesse a zero. In ogni caso, costringerebbe le famiglie ad accettare un’inflazione più alta sempre, anziché solo dopo una grave recessione. Un obiettivo di livello prezzi permanente, a sua volta, costringerebbe le banche centrali a rispondere con un aumento dei tassi ad una fiammata dell'inflazione dovuta a cause esogene – come per esempio un disastro naturale – aggravando/provocando una crisi. Meno chiaro è se una banca centrale riesca a mantenere la sua promessa. Infatti, la Fed non è riuscita a rispettare l’obiettivo del 2% d’inflazione negli ultimi cinque anni. La proposta di Bernanke sarebbe poco efficace se i mercati dubitassero della capacità di una banca centrale di mantenere la sua promessa di garantire un’inflazione adeguata
I limiti imposti alle banche centrali ci fanno nutrire maggiori speranze per la seconda possibilità – fare leva sulla politica fiscale. Prima della crisi, gli economisti erano soliti sottovalutare la politica fiscale come strumento per combattere la recessione. Lo stimolo era incerto, lento e, dato il controllo delle banche centrali, non necessario. Ma con i tassi d’interesse prossimi allo zero, lo stimolo potrebbe essere il modo più efficace per favorire la domanda – purché la banca centrale sia disposta a reggere il gioco. La storia recente, comunque, insegna che su questo non si può contare con certezza. Nel 2013, la Fed annunciò che avrebbe cominciato a ridurre i suoi acquisti di titoli, nonostante l’inflazione bassa e in ulteriore caduta e un tasso di disoccupazione superiore al 7% - condizioni che potrebbero spingere un governo ansioso a decidere uno stimolo fiscale. Una maggiore spesa pubblica in tali casi, se si ritiene probabile che possa alzare l’inflazione, potrebbe semplicemente suggerire ad una banca centrale di accelerare il suo programma di una stretta creditizia. Questo smorzerebbe – e forse annullerebbe del tutto – l’effetto dello stimolo fiscale.
Quindi politica fiscale e politica monetaria dovrebbero essere rigorosamente coordinate – portando, con ogni probabilità, ad una perdita dell’autonomia della banca centrale. Una banca centrale che stia a guardare mentre lo stimolo fiscale spinge l’inflazione oltre l’obiettivo stabilito ha di fatto rinunciato alla sua indipendenza.
Questo non è il modo ideale di procedere. Tuttavia può essere l’unica opzione percorribile.
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