Economie di frontiera
Nawaz Sharif è di nuovo ex Primo Ministro del Pakistan. Il suo terzo mandato è terminato il 28 luglio scorso con le dimissioni, dopo che la Corte Suprema lo ha accusato di corruzione, ma poteva - a buon diritto - rivendicare di aver lasciato l’economia pakistana in una condizione migliore di quella in cui l’aveva trovata. Quando il Pakistan è andato alle ultime elezioni, il PIL era in crescita di circa il 3%, un tasso piuttosto basso per un paese povero e in espansione demografica; l’inflazione superava il 10 %; il deficit di bilancio era esploso. In breve, incombeva la crisi. Quattro anni dopo, l’inflazione ha un tasso ad una sola cifra; il deficit di bilancio si è ridotto a poco più del 4% del PIL; il tasso di crescita del PIL si sta avvicinando al 6%. Ovviamente anche gli investitori lo hanno notato. Dal 2012, la capitalizzazione del mercato borsistico del Pakistan è raddoppiata (in dollari).
Il Pakistan non è la Svizzera. Rimane all’estremo negativo dei livelli globali di sicurezza, corruzione e sviluppo delle risorse umane. All’ultimo censimento, circa il 30% della popolazione risultava vivere in povertà. Tuttavia, un’economia in sostanziale crisi è stata, se non altro, rimessa su un terreno più solido. Nel frattempo, il Pakistan è diventato appetibile per gli investimenti. E’ quindi un esempio di inversione di rotta, che dipende da un adeguamento della politica macroeconomica.
Simili storie di ripresa economica sono piuttosto rare, perché le riforme necessarie sono inizialmente dolorose. Tipicamente si trovano nei cosiddetti “mercati di frontiera”, che si collocano addirittura oltre i mercati emergenti, sul margine più rischioso dell’universo degli investimenti.
"Economie di frontiera" sono le le zone disastrate come lo Zimbabwe, o perfino il Venezuela, che un giorno potrebbero risollervarsi; storie di ripresa in uno stato iniziale, che possono tuttavia vacillare, come l’Argentina, l’Egitto e forse la Nigeria; fino ad arrivare al Pakistan o alle Filippine che sono storie di successo. Non molto unisce tali economie, a parte una storia di cattiva gestione. Ma vi sono alcuni temi comuni. La politica è solitamente instabile, con l’esercito, per esempio, che minaccia in Pakistan, Egitto e Nigeria. Tutti i paesi tendono ad attraversare le stesse tre fasi: una crisi, quando i problemi aumentano e i capitali fuggono; una risposta, in cui un politico affronta la questione spinosa delle riforme, spesso con il sostegno del Fondo Monetario Internazionale; una rinascita, quando il capitale è attratto dalla prospettiva di un recupero economico.
Cominciamo con la crisi. Le circostanze variano da Paese a Paese, ma il modello generale è abbastanza simile. L’economia affronta una difficoltà finanziaria: qualche volta è il deficit di bilancio, più spesso il deficit commerciale. Gli investitori diventano restii ad offrire finanziamenti. I tassi d’interesse s’impennano. Il flusso di capitali esteri si estingue o – ancor peggio - i capitali cominciano a fuggire. La moneta è sostenuta dagli interventi della banca centrale, per sostenere l’illusione che essa abbia un valore maggiore di quello reale, e le riserve di valuta estera si riducono. La moneta forte viene razionata, creando cali di importazioni essenziali. L’economia vacilla.
I catalizzatori che innescano la crisi possono variare. Un punto debole del Pakistan, per esempio, era la sua dipendenza dalle importazioni di petrolio per far fronte a buona parte del suo fabbisogno di elettricità. Quando il prezzo del greggio superò i 100 dollari al barile nel 2013, il costo dei sussidi governativi sul carburante fece esplodere il deficit di bilancio. In Egitto il problema era il suo deficit corrente, che passò dallo 0,8% del PIL nel 2014 al 5,6% nel 2016. Il calo del prezzo del petrolio incise sui proventi del Canale di Suez ed i timori per la sicurezza portarono ad un calo delle entrate sul fronte turistico.
Per avere un’inversione di rotta è necessario ci sia la consapevolezza che sono necessarie politiche monetarie e fiscali ortodosse. Questo solitamente significa consentire alla moneta di cadere, tagliare il deficit di bilancio sfoltendo gli sprechi e usare la politica monetaria per controllare l’inflazione anziché finanziare il Governo.
Il passaggio chiave per la ripresa è quando si inverte il flusso dei capitali, in quanto attrarre di nuovo i capitali è cruciale. Siccome ci vuole un po’ per ridurre un grande deficit corrente, anche con una valuta più bassa, i flussi di capitale sono indispensabili sia per finanziare il deficit residuo, sia per ricostituire le riserve di cambio estero.
I primi a far tornare indietro i propri capitali sono quei cittadini che li hanno spostati offshore prima della crisi. L’attrattiva di tassi d’interesse alti (necessari per frenare l’inflazione) e il minor rischio sulla valuta che segue una grande svalutazione tenteranno anche altri. Per esempio, gli investitori stranieri ora detengono quasi un quarto dei Buoni del Tesoro dell’Egitto, secondo la JP Morgan Chase. I condoni fiscali sono un altro modo per indurre il rientro di capitali. L’Argentina ha raccolto in questo modo 117 miliardi di dollari nel 2016-17.
La speranza è che l’inflazione salga, l’economia cresca ad un ritmo accettabile e il disavanzo corrente sia gestibile. Questo poi dà adito ad un programma di ulteriori riforme e ad un periodo di crescita economica senza più crisi.
Ma le cose possono anche andare male.
Un pericolo è che le difficoltà e l’instabilità sociale possano ostacolare il processo di riforme. I tagli alle sovvenzioni al culmine di grandi svalutazioni sia in Argentina, sia in Egitto, hanno spinto i tassi d’inflazione fino al 22% e al 31% rispettivamente. In Egitto l’inflazione sui prezzi degli alimentari è vicina al 40%. Anche così, in entrambi i Paesi l’economia sta cominciando a ripartire.
Un ulteriore problema é che una volta che è ritornata un po’ di stabilità, la spinta per ulteriori riforme spesso svanisce. Prendiamo il Pakistan: da quando ha terminato il programma del Fondo Monetario Internazionale l’anno scorso, c’è stato un allentamento del rigore fiscale e monetario e una riproposizione di vecchi problemi nelle sue società energetiche. Le attese per una crescita più rapida ora si fondano sugli investimenti cinesi in un corridoio economico Cina – Pakistan (o CPEC) di 3000Km (1875 miglia), nell'ambito dell'iniziativa "One belt, one road", la nuova via della seta. Ma questo mette il Pakistan in una posizione già sperimentata: la dipendenza dal capitale estero, che può rivelarsi instabile e costoso. I problemi ci metterebbero un po’ a ripresentarsi; nel frattempo, gli investitori potrebbero parlare della grande svolta nello Zimbabwe o in Venezuela.
Nessun commento:
Posta un commento