sabato 29 ottobre 2016

I timori del mercato obbligazionario


I timori del mercato obbligazionario

Molti Paesi industrializzati, a partire dalla crisi finanziaria globale del 2008, hanno accumulato deficit di bilancio ed il rapporto debito-PIL è molto più alto oggi di quanto fosse all'inizio degli anni ’90. Tuttavia, il mercato dei titoli governativi sembra incutere lo stesso timore di un chihuahua  in una borsetta, con i rendimenti vicini al minimo storico.

Negli anni ’90 i mercati vendevano quando temevano che i Paesi stessero perseguendo politiche monetarie o fiscali irresponsabili. In Gran Bretagna la paura  di una Brexit "hard” si sta adesso ripercuotendo sulla crescita dei rendimenti dei gilt, che però sono ancora al di sotto dei già bassi livelli di prima del voto sull'uscita dall'Unione Europea, a giugno. Anche i Paesi in via di sviluppo con grandi deficit di bilancio possono collocare facilmente i loro titoli. Il 19 ottobre, per esempio, l’Arabia Saudita si è rivolta ai mercati per la prima volta, raccogliendo 17.5 miliardi di dollari – la più grande emissione di titoli mai avutasi in un mercato emergente.

Le banche centrali sono state il fattore principale nella trasformazione del mercato. Dopo la crisi, si sono affidate all'alleggerimento quantitativo (il “quantitative easing”, o “QE”), cioè all'espansione dei loro bilanci creando nuova liquidità per acquistare titoli. Il totale degli attivi delle sei banche più attive (la Federal Reserve, la Banca del Giappone, la Banca Centrale Europea, la Banca Nazionale Svizzera, la Banca d’Inghilterra e la Banca Popolare Cinese) sono saliti dai circa 3 trilioni di dollari nel 2002 a più di 18 trilioni oggi, secondo Pimco, con l'unico obiettivo di abbassare i tassi ovvero mantenerli vicino allo zero. Anziché fungere da controllori che tengono d’occhio i politici dissoluti, le banche centrali sono diventate loro complici.

Poi vi sono i fondi pensione e le compagnie assicurative, che comprano titoli di Stato per far fronte ai loro debiti a lungo termine. Nessun gruppo ha interesse a vendere titoli se il rendimento diminuisce; anzi, può avere necessità di comprare di più perché, quando i tassi d’interesse sono bassi, aumenta il valore attuale  dei loro debiti futuri.

Anche le banche giocano un ruolo importante.  Sono state incoraggiate a comprare titoli di Stato  come “riserva di liquidità”,  per evitare i problemi di finanziamento che hanno avuto durante la crisi del 2008. Li usano anche come collaterali ai prestiti a breve termine.

Con così tanti acquirenti forzati, titoli di Stato del valore di trilioni di dollari hanno rendimenti negativi. 

Per buona parte del XX secolo, le obbligazioni erano la scelta  primaria per gli investitori che volevano un guadagno decente. Ora non più. I titoli di Stato sembrano essere un rifugio d’emergenza per gli investitori istituzionali. Le regole dicono che i titoli di Stato sono sicuri, rendendone quasi obbligatorio il possesso.

Se le banche centrali acquistano consapevolmente una certa risorsa, quella risorsa appare buona come il contante per la maggior parte degli investitori. Allora proprio come il contante, i titoli di Stato generano un guadagno molto basso. Se ciò è sempre vero per i titoli a breve, che si ripagano in alcune settimane o mesi, ora si applica in modo molto più ampio: i rendimenti del debito a 2 anni sono negativi in Germania e Giappone e al di sotto dell’1% in America. Le operazioni sul mercato aperto, in cui le banche centrali comprano e vendono titoli, di solito si concentravano su un debito che scadeva in meno di 3 mesi; ora coprono i rendimenti con scadenze molto più lunghe.

Questo nuovo mercato ha creato un problema per coloro che gestiscono fondi misti o che gestiscono la ricchezza privata – e che davvero si preoccupano del rendimento. Gli investitori sono stati costretti ad assumersi un rischio maggiore cercando di ottenere un rendimento più alto. Hanno comprato titoli societari e debito del mercato emergente. E nei mercati dei titoli di Stato hanno comprato  debito a più lungo termine con rendimenti più alti. 

Una misura chiave del rischio è la durata; il numero di anni che gli investitori impiegherebbero per riguadagnare quanto investito. In Europa la durata media del debito governativo è salita da sei a sette anni dal 2008, secondo Salman Ahmed di Lombard Odier. Questo non vuol dire molto. Ma quanto più un portafoglio ha una durata lunga, tanto più esso è esposto ad un aumento dei tassi ed anche un aumento dei tassi di mezzo punto percentuale potrebbe provocare significative e pericolose perdite.

Un altro cambiamento nei mercati acuisce il problema: la liquidità si è deteriorata. Ci sono stati degli improvvisi  sbalzi di rendimento negli ultimi anni; nel 2013, per esempio, quando la Fed cominciò il "tapering", cioè a ridurre il suo programma di quantitative easing,.

Se in gran numero gli investitori dovessero decidere di vendere le loro posizioni rischiose, gli acquirenti sarebbero pochi; i prezzi potrebbero variare molto rapidamente. Tuttavia non è difficile immaginare le ragioni di una vendita in massa. Se la Fed decide di far salire i tassi d’interesse più rapidamente di quanto i mercati si aspettino, i rendimenti potrebbero aumentare in tutto il mondo. Lo stesso potrebbe accadere se le banche centrali in Europa e in Giappone decidessero di non voler più comprare il debito di Stato: tali timori, questo mese, hanno spinto leggermente in alto i rendimenti in Europa. Oppure gli investitori potrebbero cominciare ad agitarsi riguardo alla portata del rischio creditizio che si sono assunti. Nei mercati emergenti, per esempio, più della metà dei titoli societari sono classificati come “speculativi” o “spazzatura”, e il tasso di default è cresciuto stabilmente.

In breve, il mercato obbligazionario è instabile. E’ tarato per un mondo in crescita lenta e con inflazione bassa, non lasciando margine d’errore se le cose cambiano. La cosa più temibile nel mercato moderno è il rischio che ora cambino davvero.

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