sabato 24 settembre 2016

Un problema gigantesco


Un problema gigantesco

L’aspetto più significativo nella realtà commerciale di oggi è l’inserimento di un gruppo di aziende leader nel cuore dell’economia globale. Alcune di queste sono datate, altre sono emergenti, come la Samsung, ma tutte  hanno colto le opportunità fornite dalla globalizzazione. L’élite di queste aziende sono i maghi dell’alta tecnologia - Google, Apple, Facebook – che hanno messo in piedi dei veri e propri imperi.

Certamente queste superstar sono per molti versi ammirevoli, perché creano prodotti che migliorano la vita dei consumatori, come gli smartphone oppure i televisori intelligenti 4k, ma hanno due grandi difetti: schiacciano la concorrenza e usano i lati peggiori del management per rimanere a galla.

La concentrazione aziendale è una tendenza globale. Il numero annuo di fusioni e acquisizioni è più del doppio rispetto agli anni ’90. In particolare in America, la quota di PIL generata dalle 100 maggiori aziende è salita dal 33% del 1994 al 46% del 2013. Inoltre, il numero di nuove aziende è il più basso mai registrato dagli anni ’70 ad oggi. Muoiono più aziende di quante ne nascano. I fondatori sperano di vendere le loro aziende ad uno dei giganti del mercato, piuttosto che volere una loro crescita indipendente.

Per molti fautori del liberismo economico, questo è solo un problema transitorio. Ma l’idea che la concentrazione di mercato si regoli da sé viene messa in discussione, oggi più che nel passato. La crescita lenta incoraggia le aziende a fagocitare i concorrenti e ridurre drasticamente i costi.

Altra questione delicata è quella della tassazione. Le grandi aziende spesso fingono che i profitti generati in un Paese siano in realtà fatti in un altro. Pagare le tasse sembra un obbligo stringente per il normale cittadino, ma un optional per le aziende… E i profitti non generano automaticamente nuova occupazione, come in passato.

Tutto questo genera rabbia, comprensibilmente; ma la volontà di colpire le aziende sarebbe controproducente per ognuno di noi. Il disincanto per le politiche aziendaliste, in particolare per le regole sull’immigrazione, ha portato i populisti a vincere il referendum pro Brexit in Gran Bretagna e a spingere per la candidatura Repubblicana di Donald Trump alla Presidenza degli USA. 

Per arginare i giganti serve il bisturi,  non i proclami grossolani.

E’ necessario un approccio serio a problemi quali l’evasione fiscale. I Paesi dell’OCSE si sono già dati regole comuni per evitare che le aziende dirottino fondi nei paradisi fiscali, per esempio. Inoltre, dovrebbero fare qualcosa per smentire la finzione che differenti unità di multinazionali siano in realtà aziende separate. Meglio negoziati multilaterali che iniziative come quella recente della Commissione Europea che ha imposto tasse retroattive su Apple in Irlanda.

La concentrazione è un problema ancora più grave. L’America, in particolare, ha spesso concesso il beneficio del dubbio alle grandi aziende. Questo poteva avere un senso negli anni ’80 e ’90 quando colossi come General Motors e IBM erano minacciati da concorrenti stranieri o nuove aziende in patria; non è difendibile adesso che le grandi aziende controllano interi mercati e cercano nuovi modi per insediarsi.

Chi ha responsabilità politiche deve reinventare l’antitrust per l’Era Digitale. Ciò significa una maggiore vigilanza sulle conseguenze a lungo termine dell’acquisizione delle startup promettenti da parte delle grandi aziende. Significa anche rendere più facile agli utenti trasferire i loro dati da un’azienda all’altra ed evitare che le aziende tecnologiche privilegino indebitamente i loro servizi su piattaforme che loro stesse controllano; significa inoltre accertarsi che le persone abbiano una possibilità di scelta su come autenticare la loro identità online.

A parte la parentesi degli anni ’80, in cui Margaret Thatcher e Ronald Reagan assestarono un duro colpo a colossi  come AT&T e British Leyland, protetti dallo Stato, nel periodo tra il 1860 e il 1917 l’ascesa di grandi nuove industrie nel settore dell’acciaio e del petrolio e le nuove tecnologie innovative (elettricità e motore a combustione) trasformarono l’economia globale. Queste fratture portarono a brevi esplosioni di concorrenza seguite da lunghi periodi di oligopolio. I giganti di quell’epoca  rafforzarono le loro posizioni facendo fallire la concorrenza e coltivando stretti rapporti con i politici. Il contraccolpo che ne seguì contribuì a distruggere l’ordine liberale in gran parte dell’Europa.

Quindi, plaudiamo ai risultati sorprendenti delle aziende superstar di oggi, ma stiamo attenti. Il mondo ha bisogno di una sana dose di competizione per mantenere in piedi i colossi, dando anche, nello stesso tempo, la possibilità di crescere a coloro che vivono nella loro ombra.

sabato 17 settembre 2016

Il passo più lungo della gamba…


Il passo più lungo della gamba…



Accade spesso nella nostra vita di conoscere, direttamente o per sentito dire, persone che vivono al di sopra dei propri mezzi. 

Perfino in letteratura c’è qualche spunto in merito; basti pensare al romanzo “Gli Indifferenti” di Moravia, scritto alla fine degli anni ’20. Vi si narra la storia di una famiglia borghese in cui la madre vedova non riesce a restituire un prestito garantito da un’ipoteca sulla villa. Le banche rifiutano di concederle un prestito per mancanza di solide garanzie. Del resto le banche impiegano i soldi dei depositanti, quindi è normale che siano molto caute nel prestarli. Servono garanzie o, a seconda del caso, un “business plan” credibile. 

E’ evidente che più la situazione economica generale è critica, più le banche tendono a stringere i cordoni della borsa, generando così un circolo vizioso per cui diventa sempre più difficile avviare nuove attività e quindi generare lavoro e benessere.

sabato 10 settembre 2016

“Una vigile e provvida paura è la madre della sicurezza” (Edmund Burke)


“Una vigile e provvida paura è la madre della sicurezza” (Edmund Burke)


Il recente sisma nel Centro Italia ha drammaticamente portato alla ribalta il tema della tutela preventiva di cose e persone dal rischio di eventi avversi, siano essi terremoti e alluvioni, o anche gravi malattie e morti improvvise.

Gli Italiani, purtroppo, vuoi per scaramanzia, vuoi per scarsa fiducia nei comportamenti delle compagnie in caso di risarcimento, non sono propensi a tutelarsi per tempo. Eppure basterebbe che un capofamiglia sottoscrivesse un contratto assicurativo Tcm (Temporanea caso morte) per far ricevere agli eredi quanto necessario al mantenimento del loro tenore di vita. Per di più, tale contratto usufruirebbe anche della detrazione fiscale al 19%. Invece, come rivela un sondaggio condotto da IPR Marketing, istituto demoscopico diretto da Antonio Noto, soltanto pochi Italiani stipulano assicurazioni su vita e invalidità; la percentuale più elevata è quella delle polizze a protezione del mutuo casa, eppure non si supera il 16%.

Sebbene siamo il Paese europeo più colpito da catastrofi naturali, siamo gli unici tra i principali Paesi dell’Unione a non avere un sistema misto pubblico-privato per la gestione del rischio catastrofe. Invece proprio questo sistema, secondo la Presidente dell’ANIA Maria Bianca Farina, sarebbe in grado di garantire rapidità e trasparenza nei risarcimenti, nonché un minor aggravio sulla finanza pubblica. Si potrebbero percorrere due strade: quella della semiobbligatorietà delle polizze, sul modello francese, o quella dell’obbligatorietà come sperimentata in Nuova Zelanda, dove l’elevata diffusione delle polizze (intorno al 90%) permette di pagare il premio più basso al mondo.

Sarebbe auspicabile, quindi, una maggiore sensibilizzazione al problema della copertura dai rischi. Tradizionalmente gli Italiani considerano la casa come elemento fondamentale di benessere e sicurezza, ed è paradossale che solo il 45% delle abitazioni sia coperto da polizza. Ci si affida all’assicurazione condominiale, ma questa copre solo le parti comuni e le mura degli appartamenti; per tutelarsi contro incendi, furti, allagamenti e danni a terzi sarebbe necessario sottoscrivere una polizza scegliendola nel ventaglio di prodotti offerti dalle varie compagnie. In media i costi sono compresi tra i 90 e i 200 Euro all’anno, a seconda che si tratti di un appartamento o di una villetta. Un sacrificio economico tutto sommato sopportabile, a fronte di una maggiore tranquillità per la vita propria e dei propri cari.

sabato 3 settembre 2016

Banche : cosi è (se vi pare).


Banche : cosi è (se vi pare)

Nel suo intervento di ieri al Forum Ambrosetti a Cernobbio il premier Renzi è stato molto chiaro : "Il messaggio forte contenuto nella legge sulle popolari e': "fuori la politica dalla banche", ma soprattutto le banche devono aggregarsi. Ci sono piu' poltrone e filiali che nel resto del mondo".

D'accordo, così è (se vi pare), i banchieri.


Bini Smaghi, presidente di Société Générale e di Chianti Banca, già membro del comitato esecutivo della BCE, sempre a Cernobbio, ha affermato che "il sistema bancario italiano è troppo frammentato, poco redditizio e quindi poco capace di attrarre investimenti"; aggiungendo che "in Italia e Germania ci sono troppe banche", cosa che "rende necessarie nuove aggregazioni".
A Giovanni Bossi, amministratore delegato di Banca Ifis, è "piaciuto moltissimo il riferimento che (Renzi) ha fatto sul tema banche e sull’occupazione nel futuro nel mondo delle banche: abbiamo 330 mila addetti oggi in Italia, il premier ha detto che il prossimo anno potrebbero essere 200-150mila, quindi la metà. È una cosa giusta. E' una cosa che va detta, ed è bene che cominciamo a metabolizzarla. Che lo dica il presidente del consiglio va molto bene".

Che, finalmente, per le banche sia giunto il momento delle aggregazioni ?

A spingere definitivamente il settore in questa direzione è il modello di business, che non tiene più. 

Troppe banche, troppi sportelli, troppi dipendenti che con l’avvento di internet e di tecnologie sempre più user-friendly, che consentono ai clienti di operare in totale autonomia da casa, si trasformano in generatori di inutili costi fissi.
Dal 2008 si è assistito a un veloce peggioramento della profittabilità, su cui hanno anche pesato oneri straordinari negativi che, solo nel 2015, in Europa hanno raggiunto la cifra record di 36,8 miliardi di €.
Inoltre, i tassi di interesse sottozero hanno compresso i margini di interesse contribuendo al crollo della redditività.
Alcuni dati : nel primo trimestre del 2016 i ricavi aggregati del settore in Europa sono scesi del 9,8% sul primo trimestre del 2015 e i profitti in media hanno subito un calo del 27%, quasi tre volte più del calo degli utili delle banche Usa. 

E' necessaria una profonda ristrutturazione del comparto bancario italiano ed europeo, come avvenuto negli anni 90 per la siderurgia e negli anni 2000 per le telecomunicazioni.

Per avere un'idea di cosa accadrà, basti pensare che la spagnola Santander, tra le prime 20 al mondo per totale di attivo, ad aprile  ha deciso di chiudere in Spagna 450 filiali su 3467 (il 13%), per raggiungere il 90% nel prossimo decennio e trasformarsi in banca digitale.