mercoledì 23 settembre 2015

La reazione negativa dei mercati sembra di breve durata



La reazione negativa dei mercati sembra di breve durata

Ancora una volta, l'ultima settimana è stata dominata dalle decisioni delle banche centrali. 

La decisione della Fed di non procedere ad un aumento dei tassi di interesse, siccome ampiamente prevista dal mercato, non è stata certamente una sorpresa. Sorprendenti sono stati invece i toni, decisamente accomodanti, utilizzati dal Presidente Yellen nel corso della conferenza stampa. La discesa del tasso di disoccupazione è stata significativamente de-enfatizzata, mentre molto più peso è stato dato alla debolezza del ciclo economico dei Paesi Emergenti e alla forza del dollaro. Allo stesso tempo è venuta meno la fiducia della FED nel centrare l’obiettivo di inflazione al 2% nel medio periodo. Guardando al futuro, un rialzo dei tassi è ora possibile a dicembre, ma è tutt’altro che certo. La una politica monetaria rimane quindi accomodante, ma la reazione dei mercati è stata negativa. Il motivo è nella maggiore incertezza su ciò che guida le decisioni di politica monetaria. Ed i mercati non amano l’incertezza. 

La BCE  ha riaffermato la propria volontà di reflazionare l’economia dell’eurozona, se necessario allungando o aumentando il programma di allentamento quantitativo.

La Banca del Giappone, pur non avendo preso alcun impegno ad un ulteriore allentamento quantitativo, abbassando le proprie stime di crescita dell’economia giapponese potrebbe adottare una politica monetaria più espansiva.

Tanto premesso, la reazione negativa dei mercati sembra di breve durata, siccome - come detto - le banche centrali globali hanno adottato nel corso degli ultimi 10 giorni un atteggiamento decisamente più espansivo. 

Volgendo lo sguardo al ciclo globale, è opportuno sottolineare che se è vero che i dati di produzione industriale nel corso dell’estate sono stati abbastanza deludenti e tendenzialmente deboli, è altrettanto vero che i dati relativi alla domanda per consumi sono stati alquanto robusti. Le vendite al dettaglio nel corso dell’estate fino ad agosto, almeno per Stati Uniti e Cina, sono uscite piuttosto solide e questo dovrebbe suggerire che la debolezza registrata dagli indicatori industriali nel corso dell’estate potrebbe rivelarsi transitoria.

mercoledì 16 settembre 2015

Il dilemma della Fed


Il dilemma della Fed

Tutti i mercati sono in attesa della decisione di domani della principale Banca centrale al mondo. La Fed, dopo nove lunghi anni di tassi a zero, si troverà a dover compiere una scelta molto difficile.

Rialzo, forse Si
I cardini del mandato del Comitato di politica monetaria della Federal Reserve sono due : la disoccupazione e l’inflazione.  Il primo obiettivo della politica monetaria della Fed è il massimo impiego (ossia una disoccupazione compressa al minimo possibile). In seconda battuta la stabilità dei prezzi con tassi di interesse moderati nel lungo termine. Ed ovviamente anche la stabilità del sistema finanziario e bancario degli Stati Uniti. 
Gli indicatori economici segnalano che è arrivato il momento di “normalizzare” la politica monetaria, ovvero avviare una fase di rialzo dei tassi.
Infatti il tasso di disoccupazione è calato dello 0,4% negli ultimi tre mesi, ed a quota 5,1% è arduo pensare non sia ad un livello di normalità. Anche i salari crescono, del 2,2%. Inoltre, è stato pubblicato il dato relativo alle nuove aperture di posizioni lavorative in USA: 430.000 nuove aperture nel mese di luglio, che porta il totale ai livelli massimi degli ultimi cinque anni, 5,75 milioni. 
Anche per l’inflazione, abbondantemente sotto i target previsti dalla Fed, i modelli econometrici utilizzati dalla Federal Reserve fanno pensare ad una normalizzazione delle dinamiche dei prezzi già l’anno prossimo.
Questi dati portano a pensare che sia ormai opportuno un rialzo tassi.  Agire oggi può consentire che il ritmo dei successivi rialzi sia graduale e limitato. Ritardare troppo il primo rialzo potrebbe favorire un surriscaldamento dell'economia costringendo la Banca centrale americana a rialzare troppo velocemente i tassi in futuro.

Rialzo, forse No
Eppure, i mercati, forse perché suppongono che la Fed non agisca in un contesto di alta volatilità, stimano a circa il 30% le probabilità di un rialzo questa settimana, ed ad oltre il 50% per la riunione di dicembre. La volatilità sui mercati finanziari è esacerbata da una crescente vulnerabilità di alcuni Paesi emergenti (da ultimo il Brasile, che ha visto tagliare recentemente il rating sovrano sotto il livello “investment grade”), che potrebbe acuirsi con l'aumento dei tassi Usa tenuto conto del volume delle emissioni obbligazionarie degli emerging proprio in Usd.
Anche il dollaro non “crede” ad un rialzo dei tassi: quota adesso circa 1,12 contro euro, ben lontano dai livelli di marzo / aprile.
Da ultimo, pochi giorni fa, Il Fondo Monetario Internazionale, visto che "fino ad ora ci sono stati scarsi segnali di pressioni sui prezzi e sui salari", consiglia la Fed di non prendere decisioni affrettate sui tassi. Posizione simile dell'OCSE, che però precisa che "il percorso del rialzo dei tassi e' quattro volte più importante per l'evoluzione del Pil della decisione della Fed di muoversi ora o tra tre mesi".


mercoledì 9 settembre 2015

Cina


Cina

Archiviato (per il momento) il problema greco, da un mese la Cina ha catturato tutta l'attenzione dei mercati.

Ad inizio settembre il dato PMI manifatturiero cinese rilevato a 49,7 (quindi sotto la soglia dell'espansione dei 50) ha scatenato una nuova ondata di vendite sui mercati azionari, nonostante in realtà questo dato fosse in linea con quanto stimava il consensus degli analisti. 

Rallenterà l'economia cinese ?  

Certamente si. È chiara la volontà del Governo di Pechino di ribilanciare l’economia a favore dei consumi interni, ed a scapito di investimenti ed esportazioni. Come già previsto dal "Piano quinquennale 2011-2015", che prevede per l'economia cinese una crescita appunto più bilanciata e sostenibile, fino al 7% annuo. Anche recentemente, all'annuncio della 5a assemblea plenaria del 18o comitato centrale, il comunicato stampa anticipa che nel prossimo "Piano quinquennale 2016-2020", probabilmente approvato nel prossimo autunno,  sarà fondamentale raggiungere una "nuova normalità", puntando ad una migliore qualità della vita e ad una minore disparità tra cittadini. La "nuova normalità" è una crescita al 7%. L'obiettivo è molto ambizioso. E' difficile "pilotare" un rallentamento economico, considerando che quest’ultimo sta spingendo al ribasso molte materie prime - sospinte al rialzo dieci anni fa – con inevitabili conseguenze negative per i molti paesi che le esportano. 

Quale sarà l'effetto sul resto del mondo? 

Due recenti analisi svolte dalla Bundesbank e dalla Banque de France, stimano l'effetto di un calo dell'1% del PIL cinese in un -0,1% in Europa e negli Stati Uniti, ed in questi ultimi un ulteriore raffreddamento dell'inflazione di 0,2-0,4% a seconda del movimento sul Yuan-Renminbi. Questi dati, pur tenendo conto degli effetti indiretti che un rallentamento cinese porterebbe (e già porta) ad altri Paesi emergenti, potrebbero però sottostimare gli effetti a catena derivanti dai movimenti dei mercati finanziari.


In conclusione, la volatilità dei mercati appare quindi eccessiva.

mercoledì 2 settembre 2015

Il rialzo del Dollaro: chi guadagna e chi perde



Il rialzo del Dollaro: chi guadagna e chi perde


Il consenso sul rialzo del dollaro è praticamente assoluto; tenuto anche conto che è sempre più probabile a breve un primo aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve.

Il continuo rafforzamento della moneta statunitense, avvenuto negli ultimi mesi, rappresenta una buona notizia per Area Euro - in particolare per la Germania - e Giappone, che potrebbero fare affidamento anche su euro e yen deboli per dare nuovo slancio ai segnali di ripresa che si presentano ancora deboli. Si tratterebbe invece di una cattiva notizia per i Paesi Emergenti, i particolare per quelli che basano la loro economia sulle commodities: il prezzo delle materie prime è espresso in dollari e la sua continua risalita ne fa calare i prezzi nominali. Se teniamo conto anche del fatto che le economie emergenti sono indebitate prevalentemente nel biglietto verde, ci rendiamo conto del danno di un dollaro troppo forte.

Anche in Cina il dollaro forte non è un fatto positivo. La moneta cinese ne ha praticamente seguito l’andamento e, per un Paese che cerca di dare nuovo slancio alle esportazioni, non è certo una buona notizia. Tanto da aver costretto a metà agosto la Banca Popolare Cinese (PBoC) a svalutare il renminbi del 4,65% in 72 ore.

A leggere la storia, lo scenario potrebbe essere molto diverso. Uno studio di Thomnson Reuters e Credit Suisse traccia l’andamento del dollaro in corrispondenza dei primi tre mesi successivi all’inizio dei cicli di rialzo da parte della Fed, nel 1977, 1986, 1994, 1999 e 2004. Ebbene, in tutti i casi, la moneta americana ha perso in media il 10% del suo valore rispetto ad un paniere di valute.

A sostenere l’ipotesi di un possibile indebolimento del biglietto verde c’è anche la politica. Il dollaro forte certo non aiuta la ripresa di un’economia che, nonostante sia in crescita da ormai sei anni, non ha il vigore che ci si aspetterebbe. In America a novembre del prossimo anno si eleggerà un nuovo presidente e uno dei cavalli di battaglia dei repubblicani è la difesa dei produttori americani sui mercati mondiali.