sabato 29 aprile 2017

L’insolita differenza di rendimento tra le obbligazioni statunitensi e quelle europee


L’insolita differenza di rendimento  tra le obbligazioni statunitensi e quelle europee

L’America può anche essere la prima economia al mondo, ma in questi ultimi tempi il suo governo paga più di molti altri per il suo debito. I rendimenti dei bond decennali sono più alti di quelli della Gran Bretagna, della Francia, di Singapore e perfino dell’Italia.

Il gap tra i rendimenti a dieci anni americani e tedeschi ha anche superato i due punti percentuali. Per buona parte degli ultimi 25 anni, era raro che la differenza superasse un solo punto percentuale. Qualche volta, i rendimenti americani scendevano al di sotto dei livelli tedeschi.

Se si va indietro di una generazione, ci si sarebbe potuti aspettare che il Paese con i più alti rendimenti dei bond  fosse quello con la moneta più debole; gli investitori avrebbero chiesto un rendimento più alto per compensare il rischio di un deprezzamento futuro. Ma questo non si verifica, oggi. Il dollaro è già forte, in rapporto all’Euro, e molti si aspettano che si rafforzi ulteriormente. In verità, il maggior rendimento sul debito americano è una ragione per cui gli investitori potrebbero voler comprare il dollaro.

Invece, il gap può riflettere differenze di politica sia monetaria che fiscale.  In America la Federal Reserve ha smesso di acquistare bond del Tesoro già da un po’ di tempo ed ha aumentato i tassi d’interesse tre volte dal dicembre 2015; la Banca Centrale Europea (BCE) sta ancora comprando bond come parte del suo programma di alleggerimento quantitativo (“quantitative easing”) e paga un tasso negativo sui depositi. L’amministrazione Trump si è impegnata ad effettuare tagli alle tasse e spese per le infrastrutture che aumenterebbero il deficit di bilancio e richiederebbero un aumento nell’emissione di bond. L’Euro-zona non ha programmi di questo tipo per garantire uno stimolo fiscale.

L’attuale divergenza richiama quella tra i rendimenti dei bond americani e giapponesi. Questi ultimi sono stati notevolmente bassi per buona parte degli ultimi 20 anni, quando l’economia giapponese è rimasta impantanata nella crescita lenta e nella deflazione. Forse gli investitori si aspettano che l’Euro-zona resti bloccata nelle sabbie mobili della deflazione, mentre l’economia americana torni a crescere con più forza. Ma quest’idea non trova riscontro nelle aspettative d’inflazione.  Una misura usata spesso, derivata dal mercato obbligazionario, è nota come 5y5y = questa sigla indica il tasso swap sull’inflazione di pareggio a cinque anni su un orizzonte quinquennale. In pratica, il suo valore indica le attese degli investitori su quale sarà il tasso medio di inflazione fra 5 anni e per i successivi 5.  In America la previsione è intorno al 2,1%;  nella zona Euro è intorno all’1,7%. Sei mesi fa le previsioni erano dell’1,68% e dell’1,34%. Entrambe sono salite un po’, ma il gap non si è ampliato in maniera significativa.

Quindi è in gioco qualcosa di più della semplice economia.

Un fattore di cui tener conto può essere l’azione degli investitori istituzionali. Sia le compagnie di assicurazioni ramo vita, sia i fondi pensione tendono ad avere passività a lungo termine, cioè impegni cui devono far fronte nell'arco di più decenni.  Essi tentano di bilanciare quelle passività acquistando obbligazioni governative. Disposizioni contabili e normative spesso comportano che essi usino i rendimenti dei titoli obbligazionari a lungo termine per compensare le loro passività. Ma c’è una discrepanza: le passività di queste compagnie e fondi tendono ad avere una scadenza più lunga rispetto alle obbligazioni che detengono. Così quando i rendimenti delle obbligazioni a lungo termine calano, la loro posizione finanziaria peggiora. Ciò significa che hanno bisogno di comprare più titoli obbligazionari. Questo spinge in alto i prezzi - e i rendimenti ancora più in basso, peggiorando ulteriormente la situazione.

In ogni caso, i fattori che hanno ampliato lo spread tra i rendimenti americani e quelli tedeschi possono cominciare a dissolversi. Le preoccupazioni politiche possono placarsi se la Le Pen non vincerà; la Banca Centrale Europea può ridimensionare il suo alleggerimento monetario; i programmi incentivanti di Trump possono essere rinviati, o attenuati. 

Qualunque altra cosa la storia possa insegnarci, non ci dirà certo che i rendimenti tedeschi dello 0,37% a dieci anni  si riveleranno un affare.

sabato 1 aprile 2017

Chi perde quando la globalizzazione arretra?


Chi perde quando la globalizzazione arretra?

I nuovi nazionalismi avanzano in Europa e in America. Sostengono che la globalizzazione ha avvantaggiato le élites e ha penalizzato i lavoratori; inoltre che i governi dovrebbero mettere al primo posto l’America / la Gran Bretagna / la Francia. Questo significa favorire i produttori in Patria e restringere i flussi di persone, merci e (citato meno spesso) capitale. L’ultima decisione della Casa Bianca, qualche giorno fa, è stata alzare un muro all'import, con imposizione di dazi su tanti prodotti italiani (Vespa, San Pellegrino .... ) e di altri paesi europei.

Questi fatti potrebbero essere i prodromi che il mondo è entrato in una terza fase dell’economia dalla fine dell'ultima guerra mondiale, dopo quella degli accordi di Bretton Woods (dal 1945 agli inizi degli anni ’70) e della globalizzazione (dal 1982 al 2007), concluse, entrambe, con una crisi (una stagflazione negli anni ’70, una stretta creditizia dopo il 2008). La prossima fase potrebbe vedere la globalizzazione arretrare per la prima volta dal 1945.

Se volgiamo lo sguardo al passato, possiamo osservare che la globalizzazione ha sofferto una pesante battuta d’arresto dopo il 1914. Il commercio mondiale non si è ripreso, almeno in proporzione al PIL, fino agli anni ’90. Da sottolineare che il periodo compreso tra il 1914 e il 1945 è stato uno dei più bui della Storia mondiale, segnato da due guerre e dalla Grande Depressione (eventi che spiegano perché l’arretramento della globalizzazione è stato così grave).

E' indubbio che aprire un’economia al commercio globale dia grande impulso alla crescita, nel lungo periodo (come suggerito dal confronto Corea del Nord / Corea del Sud). Il problema - oggi - è che con la globalizzazione non tutti ci guadagnano; che questa volta i guadagni non sono distribuiti equamente.

Se andiamo indietro al periodo precedente il 1914, Paesi come gli Stati Uniti e l’Argentina avevano molta terra, ma poca manodopera; esportavano merci e importavano migranti dall'Europa (che aveva un surplus di manodopera e mancanza di terra). Quei lavoratori erano attratti da salari molto più alti e nel tempo questo portò a una riduzione del gap salariale. Ma questo fu mal tollerato dai lavoratori residenti nel Nuovo Mondo, tanto che l’America diede un giro di vite all'immigrazione, che diminuì notevolmente.

Nell'economia moderna, l’immigrazione viene favorita dal divario salariale tra i Paesi ricchi e quelli in via di sviluppo; così le persone originarie dell’America Latina si trasferiscono negli Stati Uniti; quelle provenienti dall'Europa dell’Est e dall'Africa si spostano nell'Europa Occidentale. Questo viene percepito come una minaccia da parte dei lavoratori non qualificati, sia in termini di pressione salariale sia in termini culturali. I lavoratori occidentali più istruiti, invece, possono trarre vantaggio dalla mobilità globale, essendo le loro qualifiche più richieste, e dunque tendono ad essere favorevoli alla globalizzazione – da qui la divisione dell’elettorato. 

Anche alcune aziende hanno avuto benefici : le multinazionali hanno una maggiore opportunità di integrarsi; scegliere la migliore combinazione di dove produrre, dove vendere, dove stabilire la loro sede legale. Questo ha portato ad una sorta di “corsa al ribasso” della tassazione sulle imprese poiché i Paesi competono per attrarre le aziende verso di loro. 

Questo nuovo sistema rende più difficile invertire la marcia. Il commercio globale non riguarda più la competizione dei prodotti di una nazione con quelli di un’altra: automobili italiane contro automobili giapponesi. Riguarda le “catene globali di valore” di vari produttori – FCA, Volkswagen, Apple, OVS... – che competono l’uno con l’altro. Queste "catene di valore" operano tra molti confini. Ad esempio, ogni dollaro di esportazioni messicane in America contiene 40 centesimi di merci prodotte in America. Imporre tariffe su queste merci sarebbe controproducente. Ma il solo fatto che una certa politica non abbia senso non garantisce che i politici non l’adotteranno. La tattica del bastone e della carota mirata a riportare in Patria le aziende americane avrebbe l’impatto più forte sui Paesi più esposti alla catena globale di valore. Secondo uno studio, i primi dieci sono, nell'ordine, Singapore, Belgio, Gran Bretagna, Olanda, Hong Kong, Svezia, Malesia, Germania, Corea del Sud e Francia.

Nei paesi sviluppati riportare le aziende a casa significherà aumentare i costi e quindi i prezzi, con un impatto soprattutto sul tenore di vita dei lavoratori non qualificati. Si potrebbe argomentare questo aspetto è compensato dal ritorno in patria dei posti di lavoro più remunerativi : questo è il problema. A meno che il commercio mondiale non si esaurisca completamente (devastando l’economia di tutti, come negli anni ’30), le aziende dovranno affrontare ancora la competizione estera. Così potranno/dovranno sostituire i lavoratori stranieri non con quelli interni, ma con i robot.

La sostituzione dei lavoratori con le macchine (si pensi alla stampa in 3D, o alle auto e ai camion con conducente automatico) renderà i lavoratori non qualificati ancora più arrabbiati, siccome non saranno i vincitori della de-globalizzazione, dando ancora più forza ai partiti nazionalisti. E, proprio come negli anni ’30, è facile prevedere come risultato una spirale autodistruttiva di “politiche del rubamazzo”. Cioè, un disastro. Anche per i mercati.