sabato 26 novembre 2016

Trump tantrum


Trump tantrum 

Per buona parte del 2016, le cose sembravano andar bene nei mercati emergenti.

Un rialzo nei prezzi delle materie prime segnalava che l’economia globale (e della Cina in particolare) era più solida di quanto si potesse ipotizzare all’inizio dell’anno. Nel settore manifatturiero, il livello medio dell’indice PMI nei Paesi in via di sviluppo è salito, dal 49 d’inizio anno (che indica una contrazione), a 51 (espansione) nel mese di ottobre, secondo Goldman Sachs. Si potevano individuare segnali di stabilità perfino nelle economie che più hanno preoccupato gli investitori negli ultimi anni; le cosiddette 5 economie "fragili” di Brasile, India, Indonesia, Sud Africa e Turchia. Tutte hanno visto i loro deficit correnti diminuire negli ultimi tre anni, rendendole così meno dipendenti dai flussi esteri di capitale.

Gli investitori internazionali avevano quindi ripreso fiducia nei mercati emergenti. 

Prima dell’elezione presidenziale americana, sia l’indice azionario MSCI che l’indice obbligazionario JP Morgan dei Paesi emergenti mostravano performance  migliori rispetto ai loro equivalenti nei Paesi più sviluppati, quest’anno.

L’11 novembre, però, le valute dei mercati emergenti hanno fatto registrare il secondo maggior calo degli ultimi 5 anni, perdendo l’1,7% sul dollaro. Le obbligazioni governative emergenti denominate in dollari sono calate di più del 6% nei quattro giorni di contrattazione successivi all’elezione, mentre le obbligazioni in valuta locale sono scese del 7,4%; l’indice azionario MSCI dei mercati emergenti in dollari è diminuito del 7%. Si stima che, dopo l’elezione, gli investitori hanno ritirato dai mercati emergenti circa 7 miliardi di dollari.

Questi dati ci segnalano che la vittoria di Donald Trump sembra aver fatto cambiare idea, almeno temporaneamente, agli investitori. 

Alcuni dei movimenti di mercato ci dicono dell’America più di quanto ci dicono sui fondamentali dei mercati emergenti. 

La vittoria di Trump, ed il fatto che i Repubblicani controllino sia il potere esecutivo che quello legislativo, ha alimentato aspettative di tagli alle tasse, maggiori spese per infrastrutture e difesa, e norme che incoraggino le multinazionali a far rientrare i profitti realizzati all’estero. 

E’ probabile che quel programma porti ad un aumento del deficit di bilancio, ad un maggior rendimento dei Treasury e ad un rafforzamento del dollaro, specialmente se la Federal Reserve risponde allo stimolo fiscale alzando i tassi d’interesse. Queste mosse avrebbero un effetto a cascata sui mercati emergenti; le loro valute calano quando il dollaro sale, mentre i rendimenti delle obbligazioni salgono (e i prezzi scendono) in linea con il mercato dei Treasury.

Alcuni analisti suggeriscono che un dollaro più forte può avere sui mercati emergenti effetti significativi sia dal punto di vista finanziario, sia da quello commerciale. Molte aziende hanno ottenuto prestiti in dollari, quindi il costo per ripagare il loro debito aumenta quando il dollaro guadagna terreno rispetto alle loro valute. 

Gli investitori sono anche preoccupati che l’elezione di Trump segni una svolta nella globalizzazione. In campagna elettorale, si è impegnato ad esempio a rinegoziare il Trattato Nord-Americano di Libero Scambio (NAFTA, North American Free Trade Agreement), e ad imporre tariffe protezionistiche.

Ancora non è chiaro quanti di questi propositi Trump cercherà (o sarà in grado) di realizzare.

Se il principale impatto economico di Trump assumerà la forma dello stimolo fiscale, il risultato potrebbe essere una forte spinta alla crescita, sia globale sia americana. Ciò sarebbe un bene per le esportazioni dei mercati emergenti, che sono state piuttosto deboli. 

Se invece il principale obiettivo della Presidenza Trump è il protezionismo commerciale, allora i mercati emergenti sono destinati a soffrire. L’Istituto Economico tedesco IFO stima che, in una guerra commerciale, il PIL del Messico potrebbe ridursi di una percentuale tra il 3,7% e il 5%, per esempio. Questo spiega perché il peso messicano è stata la valuta colpita più duramente dall’elezione di Trump.

L’altra incognita è la politica sulla sicurezza; un ritiro dagli impegni di difesa dell’America innescherebbe i timori degli investitori e una riduzione delle loro esposizioni sui mercati emergenti.

La volatilità è la norma nei mercati emergenti. 

Gli investitori sono attratti dalle prospettive di una rapida crescita economica e dalle possibilità di riforme strutturali in periodi di stabilità, ma poi si impauriscono e ritirano i capitali quando la situazione si fa difficile. 

L’elezione di Trump aggiunge semplicemente un ulteriore elemento d’incertezza a tutto l’insieme.

sabato 12 novembre 2016

Il punto di svolta ?


Il punto di svolta  ?


Tutti vogliono individuare il momento esatto in cui i mercati cambiano tendenza. Cavalcando uno dei grandi mercati toro, per esempio la ripresa delle azioni dal 1982 in poi, o evitando un mercato orso, come quello del 2007-2008, si può fare una fortuna o almeno preservarla.

La chiave sta nell'individuare il punto di svolta.

I commentatori vedono diversi punti di svolta potenziali nei mercati di oggi.

Il primo è nelle obbligazioni di Stato. Il rendimento del Treasury decennale del Tesoro Americano è sceso all'1,37% il 7 luglio e da allora è salito al 2,13%. Il rendimento del Bund tedesco decennale è sceso al -0,18% più o meno nello stesso periodo e da allora è aumentato per chiudere ieri a +0,32%. I rendimenti dei Gilts britannici di uguale scadenza hanno mostrato un cambiamento ancora più sensibile, salendo dallo 0,61% all’1,36%  in virtù delle preoccupazioni sull'impatto economico della Brexit.

Questi rendimenti continuano ad essere ancora molto bassi, a guardare le serie storiche. In ogni caso è ragionevole pensare che la lunga parabola discendente dei rendimenti delle obbligazioni (ed il conseguente rialzo dei prezzi) iniziata nel 1982 sia ormai giunta alla fine.

Una seconda svolta potrebbe già essersi verificata all'inizio dell’anno. Gli asset rischiosi sembrano  aver recuperato all'unisono, con le azioni dei mercati emergenti, le obbligazioni “spazzatura”, le commodities e i property funds americani che hanno tutti ribaltato le scarse prestazioni del 2015. Gli esperti affermano che ciò che ha innescato l’inversione di tendenza è stata la risalita del prezzo dell’oro, che aveva raggiunto il punto più basso alla fine del 2015 e poi ha  avuto un rimbalzo del 20% quest’anno.

L’inizio del 2016 è stato caratterizzato da un certo nervosismo riguardo  all'economia cinese, alla velocità della stretta monetaria in America e ai rischi di deflazione. Ma l’economia cinese ha continuato a crescere e la Federal Reserve deve ancora alzare nuovamente  i tassi d’interesse dopo il primo aumento nel dicembre 2015 (probabilmente lo farà il mese prossimo). I timori di una deflazione sembrano essersi un po’ridimensionati; l'inflazione nelle economie avanzate è salita dallo zero dell’inizio dell’anno scorso allo 0,5% e può raggiungere l’1,5% l’anno prossimo.

Quindi una possibile spiegazione per i cambiamenti del mercato è la percezione che quella attuale sia un’era di reflazione, non più di deflazione. Forse il rimbalzo dell'oro, sceso del 44% tra il settembre 2011 e la fine dell’anno scorso, è un segnale che le forti paure degli investitori  riguardo all'inflazione e al deprezzamento della carta moneta si stanno rivelando fondate.

Può darsi. Secondo alcuni, però, la risalita dell’inflazione complessiva è in gran parte il risultato del rimbalzo dei prezzi delle materie prime, con l’inflazione di base - "core" - che resta ferma in un range ristretto dell’1-1,2 % , dove probabilmente resterà. 

In breve, ci può essere stata un’inversione di tendenza a breve termine nei mercati finanziari perché i timori deflazionistici sono stati eccessivi e i rendimenti delle obbligazioni sono scesi troppo. Ma servono molte più prove per considerare questa una svolta a lungo termine, del tipo già visto nel lontano 1982.