sabato 10 dicembre 2016

La forza del dollaro è un problema mondiale


La forza del dollaro è un problema mondiale

Quando gli economisti ripercorrono gli anni successivi alla crisi finanziaria globale, possono individuare il momento esatto in cui il boom dei prestiti esteri in dollari ha raggiunto l'apice. Era il settembre 2012, quando lo Zambia emise il suo primo Eurobond in dollari, con un rendimento del 5,4% ricevendo ordini per 12 miliardi di dollari ? Forse era un anno dopo, quando gli investitori si sono accaparrati 850 milioni di dollari di Eurobond emessi da un’azienda statale del Mozambico, attiva nella pesca del tonno. Nel frattempo, era il maggio del 2013, Petrobras - azienda petrolifera brasiliana - aveva emesso bond decennali per 11 miliardi di dollari, un record per un’azienda emergente, con un rendimento generosamente basso al 4,35%.

Tra il 9 novembre, data dell’elezione di Donald Trump  in America, e la Festa del Ringraziamento, il dollaro è salito del 3%  rispetto ad un paniere di valute dei Paesi avanzati. Un tale rimbalzo in un tempo così breve è un evento raro. Proprio la corsa ai prestiti in dollari in questi ultimi anni aiuta a spiegare perché il biglietto verde ha avuto un rimbalzo così netto.

Alla fine dell’anno scorso, i governi e le aziende fuori dagli Usa avevano accumulato debiti per 9,7 trilioni di dollari, secondo la BRI (Banca dei Regolamenti Internazionali). Di questi, 3.3 trilioni erano iscritti a bilancio tra i debiti di aziende emergenti. In Paesi con debiti in valuta estera, il tasso di cambio funge da amplificatore finanziario. Debiti in dollari equivalgono ad una posizione corta; e quando arriva uno shock, la corsa alla copertura spinge in alto il dollaro.

L’ultima spinta al dollaro ha una causa prossima. Gli investitori si aspettano che Trump trovi un accordo con il Congresso sui tagli alle tasse delle società e sugli aumenti delle spese per le infrastrutture. Un taglio fiscale può spingere la Federal Reserve ad aumentare i tassi d’interesse più rapidamente, attirando il rientro di capitali in America e rialzando il dollaro. Se i tagli alle tasse delle società spingeranno le multinazionali a rimpatriare i guadagni che hanno all’estero, questo sosterrà ulteriormente il dollaro.

Inoltre, la politica monetaria in Giappone e nell’area Euro rimarrà accomodante. Infatti l'8 dicembre scorso la Banca Centrale Europea ha deciso di estendere il suo programma di acquisto di bond, anche se ha ridotto l'ammontare mensile. 

Se un dollaro forte è ben accolto a Tokyo e a Francoforte, non altrettanto si può dire dei mercati emergenti, almeno per tre ragioni.

In primo luogo, forti cali delle valute emergenti mettono pressione alle banche centrali perché innalzino i tassi d’interesse, sia per impedire un ulteriore deprezzamento, sia per contenere la conseguente inflazione. La banca centrale della Turchia, per esempio, ha alzato i tassi d’interesse il 24 novembre in risposta ad un crollo della lira al minimo storico nei confronti del dollaro.

Secondariamente, un dollaro più forte ha anche un impatto indiretto sulle condizioni del credito nei mercati emergenti. Uno studio ha rivelato che le aziende dei mercati emergenti che si indebitano in dollari a loro volta concedono prestiti all'interno del loro paese. Quando il dollaro era debole, queste aziende prendevano prestiti liberamente nei mercati globali. Un dollaro più forte, al contrario, provoca una generale stretta creditizia nei mercati emergenti.

Un terzo effetto deriva dall’eredità dei passati prestiti in dollari. Quando le aziende si affrettano ad estinguere i loro debiti in dollari è probabile che debbano tagliare su investimenti e occupazione.

Infine, guardando al passato, l’aumento del 50% del dollaro tra il 1980 e il 1985 fu brutale per gli esportatori americani. La pressione per l’innalzamento delle barriere commerciali fu solo alleggerita dall’Accordo del Plaza nel 1985, un patto tra i Paesi ricchi per indebolire il dollaro. La più grande preoccupazione sull’ultima ripresa del dollaro è che possa scatenare conflitti, anziché promuovere accordi. Trump sembra fin troppo smanioso di ricorrere al protezionismo nel malaccorto tentativo di equilibrare il commercio americano. Ed un dollaro più forte potrebbe innescare una mossa così disastrosa.

sabato 26 novembre 2016

Trump tantrum


Trump tantrum 

Per buona parte del 2016, le cose sembravano andar bene nei mercati emergenti.

Un rialzo nei prezzi delle materie prime segnalava che l’economia globale (e della Cina in particolare) era più solida di quanto si potesse ipotizzare all’inizio dell’anno. Nel settore manifatturiero, il livello medio dell’indice PMI nei Paesi in via di sviluppo è salito, dal 49 d’inizio anno (che indica una contrazione), a 51 (espansione) nel mese di ottobre, secondo Goldman Sachs. Si potevano individuare segnali di stabilità perfino nelle economie che più hanno preoccupato gli investitori negli ultimi anni; le cosiddette 5 economie "fragili” di Brasile, India, Indonesia, Sud Africa e Turchia. Tutte hanno visto i loro deficit correnti diminuire negli ultimi tre anni, rendendole così meno dipendenti dai flussi esteri di capitale.

Gli investitori internazionali avevano quindi ripreso fiducia nei mercati emergenti. 

Prima dell’elezione presidenziale americana, sia l’indice azionario MSCI che l’indice obbligazionario JP Morgan dei Paesi emergenti mostravano performance  migliori rispetto ai loro equivalenti nei Paesi più sviluppati, quest’anno.

L’11 novembre, però, le valute dei mercati emergenti hanno fatto registrare il secondo maggior calo degli ultimi 5 anni, perdendo l’1,7% sul dollaro. Le obbligazioni governative emergenti denominate in dollari sono calate di più del 6% nei quattro giorni di contrattazione successivi all’elezione, mentre le obbligazioni in valuta locale sono scese del 7,4%; l’indice azionario MSCI dei mercati emergenti in dollari è diminuito del 7%. Si stima che, dopo l’elezione, gli investitori hanno ritirato dai mercati emergenti circa 7 miliardi di dollari.

Questi dati ci segnalano che la vittoria di Donald Trump sembra aver fatto cambiare idea, almeno temporaneamente, agli investitori. 

Alcuni dei movimenti di mercato ci dicono dell’America più di quanto ci dicono sui fondamentali dei mercati emergenti. 

La vittoria di Trump, ed il fatto che i Repubblicani controllino sia il potere esecutivo che quello legislativo, ha alimentato aspettative di tagli alle tasse, maggiori spese per infrastrutture e difesa, e norme che incoraggino le multinazionali a far rientrare i profitti realizzati all’estero. 

E’ probabile che quel programma porti ad un aumento del deficit di bilancio, ad un maggior rendimento dei Treasury e ad un rafforzamento del dollaro, specialmente se la Federal Reserve risponde allo stimolo fiscale alzando i tassi d’interesse. Queste mosse avrebbero un effetto a cascata sui mercati emergenti; le loro valute calano quando il dollaro sale, mentre i rendimenti delle obbligazioni salgono (e i prezzi scendono) in linea con il mercato dei Treasury.

Alcuni analisti suggeriscono che un dollaro più forte può avere sui mercati emergenti effetti significativi sia dal punto di vista finanziario, sia da quello commerciale. Molte aziende hanno ottenuto prestiti in dollari, quindi il costo per ripagare il loro debito aumenta quando il dollaro guadagna terreno rispetto alle loro valute. 

Gli investitori sono anche preoccupati che l’elezione di Trump segni una svolta nella globalizzazione. In campagna elettorale, si è impegnato ad esempio a rinegoziare il Trattato Nord-Americano di Libero Scambio (NAFTA, North American Free Trade Agreement), e ad imporre tariffe protezionistiche.

Ancora non è chiaro quanti di questi propositi Trump cercherà (o sarà in grado) di realizzare.

Se il principale impatto economico di Trump assumerà la forma dello stimolo fiscale, il risultato potrebbe essere una forte spinta alla crescita, sia globale sia americana. Ciò sarebbe un bene per le esportazioni dei mercati emergenti, che sono state piuttosto deboli. 

Se invece il principale obiettivo della Presidenza Trump è il protezionismo commerciale, allora i mercati emergenti sono destinati a soffrire. L’Istituto Economico tedesco IFO stima che, in una guerra commerciale, il PIL del Messico potrebbe ridursi di una percentuale tra il 3,7% e il 5%, per esempio. Questo spiega perché il peso messicano è stata la valuta colpita più duramente dall’elezione di Trump.

L’altra incognita è la politica sulla sicurezza; un ritiro dagli impegni di difesa dell’America innescherebbe i timori degli investitori e una riduzione delle loro esposizioni sui mercati emergenti.

La volatilità è la norma nei mercati emergenti. 

Gli investitori sono attratti dalle prospettive di una rapida crescita economica e dalle possibilità di riforme strutturali in periodi di stabilità, ma poi si impauriscono e ritirano i capitali quando la situazione si fa difficile. 

L’elezione di Trump aggiunge semplicemente un ulteriore elemento d’incertezza a tutto l’insieme.

sabato 12 novembre 2016

Il punto di svolta ?


Il punto di svolta  ?


Tutti vogliono individuare il momento esatto in cui i mercati cambiano tendenza. Cavalcando uno dei grandi mercati toro, per esempio la ripresa delle azioni dal 1982 in poi, o evitando un mercato orso, come quello del 2007-2008, si può fare una fortuna o almeno preservarla.

La chiave sta nell'individuare il punto di svolta.

I commentatori vedono diversi punti di svolta potenziali nei mercati di oggi.

Il primo è nelle obbligazioni di Stato. Il rendimento del Treasury decennale del Tesoro Americano è sceso all'1,37% il 7 luglio e da allora è salito al 2,13%. Il rendimento del Bund tedesco decennale è sceso al -0,18% più o meno nello stesso periodo e da allora è aumentato per chiudere ieri a +0,32%. I rendimenti dei Gilts britannici di uguale scadenza hanno mostrato un cambiamento ancora più sensibile, salendo dallo 0,61% all’1,36%  in virtù delle preoccupazioni sull'impatto economico della Brexit.

Questi rendimenti continuano ad essere ancora molto bassi, a guardare le serie storiche. In ogni caso è ragionevole pensare che la lunga parabola discendente dei rendimenti delle obbligazioni (ed il conseguente rialzo dei prezzi) iniziata nel 1982 sia ormai giunta alla fine.

Una seconda svolta potrebbe già essersi verificata all'inizio dell’anno. Gli asset rischiosi sembrano  aver recuperato all'unisono, con le azioni dei mercati emergenti, le obbligazioni “spazzatura”, le commodities e i property funds americani che hanno tutti ribaltato le scarse prestazioni del 2015. Gli esperti affermano che ciò che ha innescato l’inversione di tendenza è stata la risalita del prezzo dell’oro, che aveva raggiunto il punto più basso alla fine del 2015 e poi ha  avuto un rimbalzo del 20% quest’anno.

L’inizio del 2016 è stato caratterizzato da un certo nervosismo riguardo  all'economia cinese, alla velocità della stretta monetaria in America e ai rischi di deflazione. Ma l’economia cinese ha continuato a crescere e la Federal Reserve deve ancora alzare nuovamente  i tassi d’interesse dopo il primo aumento nel dicembre 2015 (probabilmente lo farà il mese prossimo). I timori di una deflazione sembrano essersi un po’ridimensionati; l'inflazione nelle economie avanzate è salita dallo zero dell’inizio dell’anno scorso allo 0,5% e può raggiungere l’1,5% l’anno prossimo.

Quindi una possibile spiegazione per i cambiamenti del mercato è la percezione che quella attuale sia un’era di reflazione, non più di deflazione. Forse il rimbalzo dell'oro, sceso del 44% tra il settembre 2011 e la fine dell’anno scorso, è un segnale che le forti paure degli investitori  riguardo all'inflazione e al deprezzamento della carta moneta si stanno rivelando fondate.

Può darsi. Secondo alcuni, però, la risalita dell’inflazione complessiva è in gran parte il risultato del rimbalzo dei prezzi delle materie prime, con l’inflazione di base - "core" - che resta ferma in un range ristretto dell’1-1,2 % , dove probabilmente resterà. 

In breve, ci può essere stata un’inversione di tendenza a breve termine nei mercati finanziari perché i timori deflazionistici sono stati eccessivi e i rendimenti delle obbligazioni sono scesi troppo. Ma servono molte più prove per considerare questa una svolta a lungo termine, del tipo già visto nel lontano 1982.  

sabato 29 ottobre 2016

I timori del mercato obbligazionario


I timori del mercato obbligazionario

Molti Paesi industrializzati, a partire dalla crisi finanziaria globale del 2008, hanno accumulato deficit di bilancio ed il rapporto debito-PIL è molto più alto oggi di quanto fosse all'inizio degli anni ’90. Tuttavia, il mercato dei titoli governativi sembra incutere lo stesso timore di un chihuahua  in una borsetta, con i rendimenti vicini al minimo storico.

Negli anni ’90 i mercati vendevano quando temevano che i Paesi stessero perseguendo politiche monetarie o fiscali irresponsabili. In Gran Bretagna la paura  di una Brexit "hard” si sta adesso ripercuotendo sulla crescita dei rendimenti dei gilt, che però sono ancora al di sotto dei già bassi livelli di prima del voto sull'uscita dall'Unione Europea, a giugno. Anche i Paesi in via di sviluppo con grandi deficit di bilancio possono collocare facilmente i loro titoli. Il 19 ottobre, per esempio, l’Arabia Saudita si è rivolta ai mercati per la prima volta, raccogliendo 17.5 miliardi di dollari – la più grande emissione di titoli mai avutasi in un mercato emergente.

Le banche centrali sono state il fattore principale nella trasformazione del mercato. Dopo la crisi, si sono affidate all'alleggerimento quantitativo (il “quantitative easing”, o “QE”), cioè all'espansione dei loro bilanci creando nuova liquidità per acquistare titoli. Il totale degli attivi delle sei banche più attive (la Federal Reserve, la Banca del Giappone, la Banca Centrale Europea, la Banca Nazionale Svizzera, la Banca d’Inghilterra e la Banca Popolare Cinese) sono saliti dai circa 3 trilioni di dollari nel 2002 a più di 18 trilioni oggi, secondo Pimco, con l'unico obiettivo di abbassare i tassi ovvero mantenerli vicino allo zero. Anziché fungere da controllori che tengono d’occhio i politici dissoluti, le banche centrali sono diventate loro complici.

Poi vi sono i fondi pensione e le compagnie assicurative, che comprano titoli di Stato per far fronte ai loro debiti a lungo termine. Nessun gruppo ha interesse a vendere titoli se il rendimento diminuisce; anzi, può avere necessità di comprare di più perché, quando i tassi d’interesse sono bassi, aumenta il valore attuale  dei loro debiti futuri.

Anche le banche giocano un ruolo importante.  Sono state incoraggiate a comprare titoli di Stato  come “riserva di liquidità”,  per evitare i problemi di finanziamento che hanno avuto durante la crisi del 2008. Li usano anche come collaterali ai prestiti a breve termine.

Con così tanti acquirenti forzati, titoli di Stato del valore di trilioni di dollari hanno rendimenti negativi. 

Per buona parte del XX secolo, le obbligazioni erano la scelta  primaria per gli investitori che volevano un guadagno decente. Ora non più. I titoli di Stato sembrano essere un rifugio d’emergenza per gli investitori istituzionali. Le regole dicono che i titoli di Stato sono sicuri, rendendone quasi obbligatorio il possesso.

Se le banche centrali acquistano consapevolmente una certa risorsa, quella risorsa appare buona come il contante per la maggior parte degli investitori. Allora proprio come il contante, i titoli di Stato generano un guadagno molto basso. Se ciò è sempre vero per i titoli a breve, che si ripagano in alcune settimane o mesi, ora si applica in modo molto più ampio: i rendimenti del debito a 2 anni sono negativi in Germania e Giappone e al di sotto dell’1% in America. Le operazioni sul mercato aperto, in cui le banche centrali comprano e vendono titoli, di solito si concentravano su un debito che scadeva in meno di 3 mesi; ora coprono i rendimenti con scadenze molto più lunghe.

Questo nuovo mercato ha creato un problema per coloro che gestiscono fondi misti o che gestiscono la ricchezza privata – e che davvero si preoccupano del rendimento. Gli investitori sono stati costretti ad assumersi un rischio maggiore cercando di ottenere un rendimento più alto. Hanno comprato titoli societari e debito del mercato emergente. E nei mercati dei titoli di Stato hanno comprato  debito a più lungo termine con rendimenti più alti. 

Una misura chiave del rischio è la durata; il numero di anni che gli investitori impiegherebbero per riguadagnare quanto investito. In Europa la durata media del debito governativo è salita da sei a sette anni dal 2008, secondo Salman Ahmed di Lombard Odier. Questo non vuol dire molto. Ma quanto più un portafoglio ha una durata lunga, tanto più esso è esposto ad un aumento dei tassi ed anche un aumento dei tassi di mezzo punto percentuale potrebbe provocare significative e pericolose perdite.

Un altro cambiamento nei mercati acuisce il problema: la liquidità si è deteriorata. Ci sono stati degli improvvisi  sbalzi di rendimento negli ultimi anni; nel 2013, per esempio, quando la Fed cominciò il "tapering", cioè a ridurre il suo programma di quantitative easing,.

Se in gran numero gli investitori dovessero decidere di vendere le loro posizioni rischiose, gli acquirenti sarebbero pochi; i prezzi potrebbero variare molto rapidamente. Tuttavia non è difficile immaginare le ragioni di una vendita in massa. Se la Fed decide di far salire i tassi d’interesse più rapidamente di quanto i mercati si aspettino, i rendimenti potrebbero aumentare in tutto il mondo. Lo stesso potrebbe accadere se le banche centrali in Europa e in Giappone decidessero di non voler più comprare il debito di Stato: tali timori, questo mese, hanno spinto leggermente in alto i rendimenti in Europa. Oppure gli investitori potrebbero cominciare ad agitarsi riguardo alla portata del rischio creditizio che si sono assunti. Nei mercati emergenti, per esempio, più della metà dei titoli societari sono classificati come “speculativi” o “spazzatura”, e il tasso di default è cresciuto stabilmente.

In breve, il mercato obbligazionario è instabile. E’ tarato per un mondo in crescita lenta e con inflazione bassa, non lasciando margine d’errore se le cose cambiano. La cosa più temibile nel mercato moderno è il rischio che ora cambino davvero.

domenica 23 ottobre 2016

Inflazione : effetto Brexit


Inflazione : effetto Brexit

L’inflazione della Gran Bretagna ha raggiunto il livello più alto dalla fine del 2014: l’indice dei prezzi al consumo (CPI) ha accelerato all'1% annuale a settembre - dallo 0,6% del mese precedente - Gli economisti si aspettavano invece che l’indice salisse allo 0,9%, dopo il calo della Sterlina susseguente alla Brexit, che recentemente ha toccato il livello più basso da 31 anni rispetto al Dollaro.

Il crollo della Sterlina nei confronti di tutte le principali valute, da quando si è votato per la Brexit, ha aumentato il costo delle importazioni nel Regno Unito e la settimana scorsa ha innescato una guerra dei prezzi tra il produttore di Marmite (una crema spalmabile che si usa sui toast), Unilever, e il supermercato Tesco. Gli esperti affermano che le fluttuazioni della valuta impiegheranno del tempo per ripercuotersi sui prezzi e che i costi crescenti continueranno a colpire la spesa dei consumatori l’anno prossimo e nel 2018, mentre un calo degli investimenti dopo il voto per la Brexit spinge ulteriormente verso il basso la crescita economica.

“L’inflazione dei prezzi al consumo dovrebbe balzare in alto a settembre, e sembra destinata a salire rapidamente nei mesi successivi”, aveva previsto l’agenzia di consulenza Capital Economics in una nota ai clienti in cui si prevedeva un tasso d’inflazione proprio all'1% a settembre. “Un aumento a settembre sembra inevitabile. Il calo della Sterlina e l'aumento del prezzo del petrolio in Dollari ha visto la spesa del carburante al distributore salire di oltre l’1% a settembre. Inoltre, ci attendiamo un ulteriore rialzo dell’inflazione, l’anno prossimo, a oltre il 2% entro la primavera quando gli effetti del calo nel tasso di cambio si faranno sentire sull'andamento dell’inflazione".

L’EY Item Club, agenzia di previsioni, si aspetta che l’economia britannica cresca dell’1,9% quest’anno, alimentata da un aumento al 2,5% nella spesa al consumo sullo sfondo di un’inflazione bassa. Ci si aspetta però che questa prestazione svanisca col balzo dell’inflazione al 2,6% l’anno prossimo e all'1,8 % nel 2018, provocando un crollo della spesa al consumo allo 0,5% e allo 0,9% rispettivamente.

La prospettiva di una crescita dell’inflazione la settimana scorsa ha inoltre impaurito i mercati finanziari e gli investitori si sono sbarazzati dei titoli di Stato britannici, noti come “gilts”. Alla fine di un’altra settimana tumultuosa per i mercati, i rendimenti dei gilt a 10 anni, che hanno un andamento inverso rispetto ai prezzi, sono saliti ai loro livelli massimi dal referendum di giugno.

La Sterlina è rimasta sotto pressione in confronto al Dollaro e all’Euro, crollando fino a meno di 1,22 Dollari e 1,11 Euro. Questo va paragonato all’ 1,49 Dollari e 1,31 Euro della sera del voto sulla permanenza nell’Unione Europea. La principale pressione sulla Sterlina nelle ultime settimane è derivata dalle preoccupazioni per il fatto che il governo si avvia ad una Brexit drastica ("hard"), che lascia il Regno Unito fuori dal mercato unico europeo. I ministri inglesi hanno lasciato intendere che sacrificherebbero quell’accesso in cambio di controlli più rigidi sull’immigrazione.

“Questi segnali da parte del governo di Theresa May  hanno messo in crisi lo sguardo benevolo del mercato sulla Brexit”, secondo quanto dichiarato dagli economisti Robert Wood e Gilles Moec presso la Bank of America Merrill Lynch. Riferendosi allo stato d’animo imperante in estate, hanno scritto in una ricerca: “Spesso sentiamo dire che i rischi della Brexit erano sovrastimati, che l’articolo 50 si sarebbe potuto non applicare mai, o anche se si fosse applicato, la Brexit  non si sarebbe mai attuata realmente”. Ora l’impegno della May ad applicare l’articolo 50 entro la fine del marzo prossimo, avviando la procedura formale di uscita dall’Unione Europea, ha significato che la Brexit “sta andando più veloce di quanto i mercati si aspettassero e si sta realizzando in un modo potenzialmente negativo: riteniamo che una Brexit drastica (hard) sia la cosa più probabile”, hanno aggiunto Wood e Moec.

La Sterlina in caduta, le pressioni inflazionistiche e i colpi ai progetti d’investimento delle aziende dopo il voto per la Brexit lasciano alla Banca d’Inghilterra il compito gravoso di un’azione di bilanciamento. I responsabili della politica economica hanno tagliato i tassi d’interesse fino allo 0,25% in agosto e hanno preannunciato un altro taglio che dovrebbe esserci prima della fine dell’anno. Ma dopo che alcuni studi hanno indicato che i consumatori e le aziende si sono scrollati di dosso lo shock iniziale del voto per la Brexit, quell'ulteriore riduzione è in dubbio.

“Fino alle ultime due settimane, la linea di politica monetaria era apparsa ben definita, con i responsabili che avevano fatto capire di voler di nuovo allentare le maglie prima della fine dell’anno. Ma poi il continuo afflusso di dati e l’ulteriore deprezzamento della Sterlina hanno messo i bastoni tra le ruote”, ha affermato Andrew Goodwin presso l’agenzia di consulenza Oxford Economics.

sabato 15 ottobre 2016

Una minaccia emergente


Una  minaccia  emergente

Quando i rendimenti sui titoli di Stato nei Paesi industrializzati sono pari a zero, o addirittura al di sotto, non è sorprendente che gli investitori gettino le reti in più direzioni. Nel frattempo la “corsa al rendimento”, come è stata definita, ha inevitabilmente fatto volgere l’attenzione ai mercati emergenti.

Uno o due decenni fa, il debito sovrano dei mercati emergenti sarebbe potuto essere l’unico beneficiario di questi flussi. Ma i titoli di Stato non offrono un rendimento così appetibile in questo periodo; i rendimenti sui titoli decennali emessi dalla Malesia e dalle Filippine, per esempio, sono intorno al 3,6%.

Di conseguenza, gli investitori si stanno assumendo un ulteriore grande rischio acquistando in massa debito societario dei mercati emergenti. Quest’anno i fondi obbligazionari in quel settore hanno raccolto 11,5 miliardi di dollari, secondo HSBC. L’entusiasmo è stato ricompensato. L’indice Bloomberg dei titoli societari nei mercati emergenti si è apprezzato del 13,4% dal 1 gennaio, rapportato al 4,4% dei titoli del Tesoro americani. Questo recupero è avvenuto nonostante le oscillazioni d’inizio anno nell'economia cinese e l’impatto dei tassi d’interesse americani più alti.

Il miglioramento delle performance delle obbligazioni societarie emergenti riflette, in parte, un maggiore ottimismo sull'andamento dell'economia. Infatti i prezzi delle merci sono rimbalzati dall'inizio dell’anno, e questa è senza dubbio una buona notizia per i produttori di materie prime. Il Fondo Monetario Internazionale ha appena rivisto le sue previsioni sulla crescita dell’economia emergente quest’anno al 4,2%, la prima accelerazione di crescita in 6 anni; si aspetta una crescita, ancora più rapida, del 4,6% l’anno prossimo. Non sono solo le obbligazioni societarie dei mercati emergenti ad essere salite; lo hanno fatto anche azioni e valute.

Ma gli investitori devono essere cauti. Proprio mentre comprano questo asset, i fondamentali del credito si stanno deteriorando. Nel 2015, 26 emittenti nei mercati emergenti sono falliti, contro i 15 del 2014. Questo ha portato il tasso di default sul debito speculativo al 3,1%, il livello più alto dal 2009, secondo l’agenzia di rating Standard & Poor’s. Già quest’anno altre 18 società emergenti sono fallite, facendo conseguentemente salire il tasso annuale al 3,7%. 

Sebbene la crisi si stia accentuando, quel tasso di default si è collocato poco al di sopra della media storica del 3,5%, cifra che era aumentata per l’alto numero di fallimenti a cavallo degli anni 2000. Il tasso di default più alto in assoluto (17,6%) fu registrato nel 2002.

Probabilmente stanno per arrivare altri default. Più della metà di tutti gli emittenti nei mercati emergenti sono di grado speculativo (o "junk", cioè spazzatura). L’anno scorso Standard & Poor’s ha declassato 290 emittenti nei mercati emergenti e ha aumentato il rating a solo 80 di questi; altri 152 sono stati ritenuti potenzialmente declassabili, mentre si è ritenuto che solo 19 potessero ottenere una valutazione superiore.

Quando le cose vanno veramente male, il default sembra accadere più rapidamente nei mercati emergenti. In media, il gap tra l’emissione di un titolo junk e il suo default è di 3,6 anni nei mercati emergenti, contro una media globale di 5,8 anni.

Che cosa potrebbe accadere per provocare un ulteriore deterioramento dei fondamentali nelle economie dei mercati emergenti? L’OCSE recentemente ha avvertito che “la crescita ancora debole e il notevole calo commerciale nel 2015 e nel 2016 acuiscono le preoccupazioni sulla solidità della crescita globale”. Citigroup calcola che è dagli anni ’30 che la crescita commerciale mondiale non era così debole in rapporto alla crescita globale del PIL.

Per spiegare lo scarso dinamismo commerciale, l’OCSE indica come responsabile “un calo e un’inversione di tendenza nelle liberalizzazioni commerciali”, unitamente all’ “allentamento dei vincoli globali”, cioè delle relazioni tra le multinazionali dei paesi avanzati e i loro fornitori nelle economie in via di sviluppo. Entrambe le tendenze sono una cattiva notizia per quelle società nei mercati emergenti che hanno emesso titoli.

L’ascesa di politici populisti nel mondo industrializzato – inclusa la possibile elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti il mese prossimo –potrebbe costituire una minaccia, perfino più grande, per la crescita. Una guerra commerciale tra l’America e la Cina, come minacciato da Trump, provocherebbe molti danni collaterali.

Quindi, alla fine, gli investitori si potrebbero ritrovare a cercare una via d’uscita da asset con fondamentali in rapido deterioramento. A differenza degli obbligazionisti europei e giapponesi, essi non potranno contare sulle banche centrali e sui loro programmi di allentamento quantitativo (“quantitative easing”) per assorbire gli asset indesiderati. E i vincoli regolamentari impediscono alle banche d’investimento d'agire, come hanno fatto fino al 2008; quindi la liquidità sarà difficile da reperire.

I contorni di una futura crisi dei mercati si stanno già delineando con chiarezza ?


sabato 8 ottobre 2016

La Banca Mondiale rinnova la spinta contro la disuguaglianza


La Banca Mondiale rinnova la spinta contro la disuguaglianza

La Banca Mondiale ha chiesto a gran voce una nuova spinta per affrontare la disuguaglianza, dopo aver segnalato che la distanza tra ricchi e poveri rischia di contrastare la sua ambizione di eliminare la povertà estrema entro il 2030.

Prima del suo incontro annuale con il Fondo Monetario Internazionale a Washington DC questa settimana, la Banca Mondiale ha dichiarato che il numero di persone che vivono con meno di 1.90 dollari al giorno – cifra ritenuta la soglia della povertà estrema - aveva continuato a diminuire nonostante il rallentamento  dell’economia globale negli anni successivi alla crisi finanziaria. Ha aggiunto che una crescita più rapida e una serie di misure contro la disuguaglianza sarebbero necessarie per raggiungere i due obiettivi, strettamente connessi, fissati dal Presidente Jim Yong Kim: ridurre la povertà da poco meno dell’11% della popolazione globale al 3% e aumentare i redditi del 40% più povero della popolazione in ciascun Paese.

Nella prima edizione di un nuovo studio annuale – Povertà e Prosperità Condivisa – che segnerà la direzione nell'affrontare la povertà globale, la Banca ha affermato che il numero di persone che vivono con meno di 1.90 dollari al giorno è sceso di 100 milioni portandosi a 767 milioni tra il 2012 e il 2013, ultimo anno per cui sono disponibili i dati complessivi.

“E’ da sottolineare che i Paesi hanno continuato a ridurre la povertà e ad aumentare la condivisione della ricchezza in un momento in cui l’economia globale sta crescendo meno del potenziale, ma ancora troppe persone vivono con troppo poco” ha dichiarato Kim.

“A meno che non riusciamo a riprendere una crescita globale più rapida e a ridurre la disuguaglianza, rischiamo di perdere l’obiettivo della Banca Mondiale di porre fine alla povertà estrema entro il 2030. Il messaggio è chiaro: per eliminare la povertà dobbiamo fare in modo che la crescita vada a vantaggio dei più poveri, e uno dei modi più sicuri di fare ciò è ridurre la forte disuguaglianza, specialmente nei Paesi ad alto tasso di povertà”.

I progressi registrati nel 2013 sono stati dovuti principalmente allo sviluppo in Cina, Indonesia e India, lasciando la metà dei poveri del mondo a vivere nell’Africa sub-sahariana. I tassi di povertà sono scesi al 3.5% nell’Asia Orientale e nel Pacifico – la regione che include la Cina -  e al 15%  nell’Asia Meridionale – la regione che include l’India – ma rimangono al 41% nell’Africa sub-sahariana.

La Banca ha scoperto che in 60 degli 83 Paesi studiati, i redditi medi del 40% dei più poveri sono aumentati tra il 2008 e il 2013 nonostante la più grave recessione globale dal periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale.

Nel clima  di  crescente avversione alla globalizzazione derivante dalla preoccupazione che i ricchi si  accaparrino  i vantaggi del libero scambio, la Banca ha affermato che la disuguaglianza è diminuita notevolmente a partire dal 1990. La riduzione del gap è stata dovuta  alla rapida crescita  dei maggiori Paesi emergenti, in particolare Cina e India.

La Banca ha chiarito che all'interno dei singoli Paesi il miglioramento è stato più disomogeneo. In 34 degli 83 Paesi presi in esame, le differenze di reddito si sono ampliate dal 2008, con i redditi del 60% più ricco che sono cresciuti più rapidamente rispetto a quelli del 40% più povero.
   Dopo aver studiato un gruppo di Paesi - inclusi Brasile, Cambogia, Mali, Perù e Tanzania - la Banca ha sostenuto la necessità di un approccio multi-fattoriale, articolato in 6 punti, per affrontare la disuguaglianza. Ciò significa:
1. Un’azione sulla prima infanzia mirata a migliorare la nutrizione;
2. Una copertura sanitaria totale;
3. Un accesso generalizzato a buone scuole;
4. Trasferimenti di denaro alle famiglie povere;
5. Un miglioramento delle infrastrutture (strade ed elettricità);
6. Una tassazione progressiva per redistribuire risorse facendole transitare dai ricchi ai poveri.
   
“Alcune di queste misure possono rapidamente avere un impatto sulla disuguaglianza del reddito. Altre apporteranno benefici più gradualmente. Nessuna è una cura miracolosa” ha dichiarato Kim. “Ma tutte sono sostenute da forti evidenze e molte sono alla portata dei Paesi, sia dal punto di vista finanziario, sia tecnico. Adottare le stesse politiche non significa che tutti i Paesi otterranno gli stessi risultati, ma le politiche che abbiamo individuato hanno funzionato ripetutamente in vari contesti in diverse parti del mondo”.

sabato 1 ottobre 2016

Starnuti cinesi


Starnuti cinesi


Gli investitori da tempo diffidano degli starnuti dell’America, sapendo che possono far venire il raffreddore al mondo. Anche in Asia ci si agita per la rinite cinese, che si sta dimostrando altrettanto contagiosa. Per gli epidemiologi finanziari tutto ciò assomiglia ad un puzzle. C'è da aspettarsi che i germi si possano propagare dalla Cina, la maggiore economia asiatica, ad altri Paesi vicini; ma è davvero sorprendente come si stiano rivelando contagiosi.

A differenza dell’America, invischiata nei mercati globali, l’economia della Cina è in una quarantena auto-imposta, protetta da controlli sui movimenti di capitali che limitano le sue interazioni con gli altri. Tuttavia, l’impatto cinese sui mercati borsistici asiatici ha ora quasi la stessa potenza di quello americano.

Due recenti documenti, uno del Fondo Monetario Internazionale e uno della Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), rivelano la portata del cambiamento nell’ultimo decennio. Il Fondo Monetario Internazionale stima che la correlazione tra il mercato azionario cinese e quello di altri Paesi asiatici è salita a più dello 0.3% da giugno dell’anno scorso (1 sarebbe la correlazione “perfetta”), il doppio del livello del periodo precedente la crisi finanziaria globale. Siamo ancora al di sotto dello 0.4 della correlazione tra America e Asia, ma il gap si sta riducendo rapidamente. Secondo la BRI, i titoli asiatici seguono le oscillazioni nel mercato cinese più da vicino (di circa il 60%) da quando c’è la crisi.

Gli investitori sapevano già che i problemi della Cina potevano estendersi nei mercati asiatici e, addirittura, globali. Quando le azioni cinesi sono crollate, l’estate scorsa e agli inizi di quest’anno, quasi dappertutto è accaduta la stessa cosa. E quando la Cina ha svalutato lo yuan del 2% nell’agosto 2015, le valute di altri mercati hanno subìto il contraccolpo. Il Fondo Monetario Internazionale ha calcolato che la correlazione tra le monete asiatiche e lo yuan è ora superiore allo 0.2, il doppio del livello pre-2008.

Entrambi gli studi indicano il peso dell’economia cinese come principale fattore determinante delle crescenti correlazioni. I dati mostrano che i Paesi asiatici con i più forti legami commerciali con la Cina sono quelli più condizionati dalle sue mosse di mercato. Lì è più probabile che gli investitori detengano azioni in aziende che vendono molti prodotti alla Cina; sono comprensibilmente allarmati quando i cali del mercato borsistico fanno ritenere che l’economia cinese sia in difficoltà. E il deprezzamento dello yuan, unitamente ai segnali di debolezza economica, rende meno conveniente per coloro che vivono in Cina acquistare prodotti dall’estero.

Il commercio, comunque, non è il solo veicolo di trasmissione. I legami finanziari ora giustificano circa i 2/5 delle correlazioni tra la Cina e gli altri mercati asiatici, in aumento rispetto al quasi zero di prima del 2008. Nonostante i controlli sui capitali, la Cina ha aperto canali che permettono agli investitori di comprare le sue azioni o dare prestiti alle sue aziende. Questi investimenti possono apparire piccoli in rapporto alla dimensione dell’economia cinese, ma la ricchezza attuale della Cina è tale che essi risultano ingenti in termini assoluti.

Azioni e obbligazioni cinesi detenute all’estero valgono circa 2 trilioni di dollari, più che per ogni altro mercato emergente. Gli investitori asiatici sono stati particolarmente audaci: gli impieghi su Cina e Hong-Kong  valgono più del 10% del PIL per la Corea del Sud, Taiwan e Singapore. Poiché i controlli sui capitali si sono allentati, queste connessioni finanziarie non potranno che approfondirsi. Per adesso il mercato obbligazionario della Cina esiste in un universo a sé stante. Quando lo yuan diventerà una valuta di finanziamento per gli altri, i tassi d’interesse cinesi influenzeranno quelli asiatici.

Come fa notare la BRI, correlazioni più strette in Asia sarebbero ben accolte. Negli ultimi anni i mercati di tutto il mondo hanno manifestato la tendenza a muoversi nella stessa direzione, rendendo più difficile agli investitori diversificare. Col proliferare delle holding internazionali in Asia, con la Cina come punto focale, c’è la reale possibilità che i cicli finanziari in Asia trovino il loro ritmo, differenziandosi dalle altre zone del mondo. La Cina e l’America soffriranno ancora di attacchi di starnuti: con un po’ di fortuna, prenderanno il raffreddore in tempi diversi.

sabato 24 settembre 2016

Un problema gigantesco


Un problema gigantesco

L’aspetto più significativo nella realtà commerciale di oggi è l’inserimento di un gruppo di aziende leader nel cuore dell’economia globale. Alcune di queste sono datate, altre sono emergenti, come la Samsung, ma tutte  hanno colto le opportunità fornite dalla globalizzazione. L’élite di queste aziende sono i maghi dell’alta tecnologia - Google, Apple, Facebook – che hanno messo in piedi dei veri e propri imperi.

Certamente queste superstar sono per molti versi ammirevoli, perché creano prodotti che migliorano la vita dei consumatori, come gli smartphone oppure i televisori intelligenti 4k, ma hanno due grandi difetti: schiacciano la concorrenza e usano i lati peggiori del management per rimanere a galla.

La concentrazione aziendale è una tendenza globale. Il numero annuo di fusioni e acquisizioni è più del doppio rispetto agli anni ’90. In particolare in America, la quota di PIL generata dalle 100 maggiori aziende è salita dal 33% del 1994 al 46% del 2013. Inoltre, il numero di nuove aziende è il più basso mai registrato dagli anni ’70 ad oggi. Muoiono più aziende di quante ne nascano. I fondatori sperano di vendere le loro aziende ad uno dei giganti del mercato, piuttosto che volere una loro crescita indipendente.

Per molti fautori del liberismo economico, questo è solo un problema transitorio. Ma l’idea che la concentrazione di mercato si regoli da sé viene messa in discussione, oggi più che nel passato. La crescita lenta incoraggia le aziende a fagocitare i concorrenti e ridurre drasticamente i costi.

Altra questione delicata è quella della tassazione. Le grandi aziende spesso fingono che i profitti generati in un Paese siano in realtà fatti in un altro. Pagare le tasse sembra un obbligo stringente per il normale cittadino, ma un optional per le aziende… E i profitti non generano automaticamente nuova occupazione, come in passato.

Tutto questo genera rabbia, comprensibilmente; ma la volontà di colpire le aziende sarebbe controproducente per ognuno di noi. Il disincanto per le politiche aziendaliste, in particolare per le regole sull’immigrazione, ha portato i populisti a vincere il referendum pro Brexit in Gran Bretagna e a spingere per la candidatura Repubblicana di Donald Trump alla Presidenza degli USA. 

Per arginare i giganti serve il bisturi,  non i proclami grossolani.

E’ necessario un approccio serio a problemi quali l’evasione fiscale. I Paesi dell’OCSE si sono già dati regole comuni per evitare che le aziende dirottino fondi nei paradisi fiscali, per esempio. Inoltre, dovrebbero fare qualcosa per smentire la finzione che differenti unità di multinazionali siano in realtà aziende separate. Meglio negoziati multilaterali che iniziative come quella recente della Commissione Europea che ha imposto tasse retroattive su Apple in Irlanda.

La concentrazione è un problema ancora più grave. L’America, in particolare, ha spesso concesso il beneficio del dubbio alle grandi aziende. Questo poteva avere un senso negli anni ’80 e ’90 quando colossi come General Motors e IBM erano minacciati da concorrenti stranieri o nuove aziende in patria; non è difendibile adesso che le grandi aziende controllano interi mercati e cercano nuovi modi per insediarsi.

Chi ha responsabilità politiche deve reinventare l’antitrust per l’Era Digitale. Ciò significa una maggiore vigilanza sulle conseguenze a lungo termine dell’acquisizione delle startup promettenti da parte delle grandi aziende. Significa anche rendere più facile agli utenti trasferire i loro dati da un’azienda all’altra ed evitare che le aziende tecnologiche privilegino indebitamente i loro servizi su piattaforme che loro stesse controllano; significa inoltre accertarsi che le persone abbiano una possibilità di scelta su come autenticare la loro identità online.

A parte la parentesi degli anni ’80, in cui Margaret Thatcher e Ronald Reagan assestarono un duro colpo a colossi  come AT&T e British Leyland, protetti dallo Stato, nel periodo tra il 1860 e il 1917 l’ascesa di grandi nuove industrie nel settore dell’acciaio e del petrolio e le nuove tecnologie innovative (elettricità e motore a combustione) trasformarono l’economia globale. Queste fratture portarono a brevi esplosioni di concorrenza seguite da lunghi periodi di oligopolio. I giganti di quell’epoca  rafforzarono le loro posizioni facendo fallire la concorrenza e coltivando stretti rapporti con i politici. Il contraccolpo che ne seguì contribuì a distruggere l’ordine liberale in gran parte dell’Europa.

Quindi, plaudiamo ai risultati sorprendenti delle aziende superstar di oggi, ma stiamo attenti. Il mondo ha bisogno di una sana dose di competizione per mantenere in piedi i colossi, dando anche, nello stesso tempo, la possibilità di crescere a coloro che vivono nella loro ombra.

sabato 17 settembre 2016

Il passo più lungo della gamba…


Il passo più lungo della gamba…



Accade spesso nella nostra vita di conoscere, direttamente o per sentito dire, persone che vivono al di sopra dei propri mezzi. 

Perfino in letteratura c’è qualche spunto in merito; basti pensare al romanzo “Gli Indifferenti” di Moravia, scritto alla fine degli anni ’20. Vi si narra la storia di una famiglia borghese in cui la madre vedova non riesce a restituire un prestito garantito da un’ipoteca sulla villa. Le banche rifiutano di concederle un prestito per mancanza di solide garanzie. Del resto le banche impiegano i soldi dei depositanti, quindi è normale che siano molto caute nel prestarli. Servono garanzie o, a seconda del caso, un “business plan” credibile. 

E’ evidente che più la situazione economica generale è critica, più le banche tendono a stringere i cordoni della borsa, generando così un circolo vizioso per cui diventa sempre più difficile avviare nuove attività e quindi generare lavoro e benessere.

sabato 10 settembre 2016

“Una vigile e provvida paura è la madre della sicurezza” (Edmund Burke)


“Una vigile e provvida paura è la madre della sicurezza” (Edmund Burke)


Il recente sisma nel Centro Italia ha drammaticamente portato alla ribalta il tema della tutela preventiva di cose e persone dal rischio di eventi avversi, siano essi terremoti e alluvioni, o anche gravi malattie e morti improvvise.

Gli Italiani, purtroppo, vuoi per scaramanzia, vuoi per scarsa fiducia nei comportamenti delle compagnie in caso di risarcimento, non sono propensi a tutelarsi per tempo. Eppure basterebbe che un capofamiglia sottoscrivesse un contratto assicurativo Tcm (Temporanea caso morte) per far ricevere agli eredi quanto necessario al mantenimento del loro tenore di vita. Per di più, tale contratto usufruirebbe anche della detrazione fiscale al 19%. Invece, come rivela un sondaggio condotto da IPR Marketing, istituto demoscopico diretto da Antonio Noto, soltanto pochi Italiani stipulano assicurazioni su vita e invalidità; la percentuale più elevata è quella delle polizze a protezione del mutuo casa, eppure non si supera il 16%.

Sebbene siamo il Paese europeo più colpito da catastrofi naturali, siamo gli unici tra i principali Paesi dell’Unione a non avere un sistema misto pubblico-privato per la gestione del rischio catastrofe. Invece proprio questo sistema, secondo la Presidente dell’ANIA Maria Bianca Farina, sarebbe in grado di garantire rapidità e trasparenza nei risarcimenti, nonché un minor aggravio sulla finanza pubblica. Si potrebbero percorrere due strade: quella della semiobbligatorietà delle polizze, sul modello francese, o quella dell’obbligatorietà come sperimentata in Nuova Zelanda, dove l’elevata diffusione delle polizze (intorno al 90%) permette di pagare il premio più basso al mondo.

Sarebbe auspicabile, quindi, una maggiore sensibilizzazione al problema della copertura dai rischi. Tradizionalmente gli Italiani considerano la casa come elemento fondamentale di benessere e sicurezza, ed è paradossale che solo il 45% delle abitazioni sia coperto da polizza. Ci si affida all’assicurazione condominiale, ma questa copre solo le parti comuni e le mura degli appartamenti; per tutelarsi contro incendi, furti, allagamenti e danni a terzi sarebbe necessario sottoscrivere una polizza scegliendola nel ventaglio di prodotti offerti dalle varie compagnie. In media i costi sono compresi tra i 90 e i 200 Euro all’anno, a seconda che si tratti di un appartamento o di una villetta. Un sacrificio economico tutto sommato sopportabile, a fronte di una maggiore tranquillità per la vita propria e dei propri cari.

sabato 3 settembre 2016

Banche : cosi è (se vi pare).


Banche : cosi è (se vi pare)

Nel suo intervento di ieri al Forum Ambrosetti a Cernobbio il premier Renzi è stato molto chiaro : "Il messaggio forte contenuto nella legge sulle popolari e': "fuori la politica dalla banche", ma soprattutto le banche devono aggregarsi. Ci sono piu' poltrone e filiali che nel resto del mondo".

D'accordo, così è (se vi pare), i banchieri.


Bini Smaghi, presidente di Société Générale e di Chianti Banca, già membro del comitato esecutivo della BCE, sempre a Cernobbio, ha affermato che "il sistema bancario italiano è troppo frammentato, poco redditizio e quindi poco capace di attrarre investimenti"; aggiungendo che "in Italia e Germania ci sono troppe banche", cosa che "rende necessarie nuove aggregazioni".
A Giovanni Bossi, amministratore delegato di Banca Ifis, è "piaciuto moltissimo il riferimento che (Renzi) ha fatto sul tema banche e sull’occupazione nel futuro nel mondo delle banche: abbiamo 330 mila addetti oggi in Italia, il premier ha detto che il prossimo anno potrebbero essere 200-150mila, quindi la metà. È una cosa giusta. E' una cosa che va detta, ed è bene che cominciamo a metabolizzarla. Che lo dica il presidente del consiglio va molto bene".

Che, finalmente, per le banche sia giunto il momento delle aggregazioni ?

A spingere definitivamente il settore in questa direzione è il modello di business, che non tiene più. 

Troppe banche, troppi sportelli, troppi dipendenti che con l’avvento di internet e di tecnologie sempre più user-friendly, che consentono ai clienti di operare in totale autonomia da casa, si trasformano in generatori di inutili costi fissi.
Dal 2008 si è assistito a un veloce peggioramento della profittabilità, su cui hanno anche pesato oneri straordinari negativi che, solo nel 2015, in Europa hanno raggiunto la cifra record di 36,8 miliardi di €.
Inoltre, i tassi di interesse sottozero hanno compresso i margini di interesse contribuendo al crollo della redditività.
Alcuni dati : nel primo trimestre del 2016 i ricavi aggregati del settore in Europa sono scesi del 9,8% sul primo trimestre del 2015 e i profitti in media hanno subito un calo del 27%, quasi tre volte più del calo degli utili delle banche Usa. 

E' necessaria una profonda ristrutturazione del comparto bancario italiano ed europeo, come avvenuto negli anni 90 per la siderurgia e negli anni 2000 per le telecomunicazioni.

Per avere un'idea di cosa accadrà, basti pensare che la spagnola Santander, tra le prime 20 al mondo per totale di attivo, ad aprile  ha deciso di chiudere in Spagna 450 filiali su 3467 (il 13%), per raggiungere il 90% nel prossimo decennio e trasformarsi in banca digitale. 




venerdì 22 luglio 2016

Voglio comprare la "prima" casa : mutuo o leasing ?


Voglio comprare la "prima" casa : mutuo o leasing ?

Fino allo scorso anno chi desiderava acquistare la prima casa, e sfruttare le agevolazioni fiscali previste, poteva stipulare un mutuo. Oggi c'è un'ulteriore possibilità : il leasing immobiliare abitativo.

La Legge di Stabilità 2016 (art. 1, comma 81, legge 28 dicembre 2015 n. 208) ha introdotto nel nostro ordinamento il "leasing immobiliare abitativo" per l'acquisto della prima casa, riservandolo a richiedenti che, al momento della stipula, abbiano un reddito inferiore a 55mila euro annui. Sono previste notevoli agevolazioni fiscali, soprattutto per i richiedenti under 35 :
"• una detrazione pari al 19% delle spese sostenute relative ai canoni di leasing, nonché ai relativi oneri accessori, per un importo non superiore a 8.000 euro annui", cioè il doppio rispetto al mutuo; 
• una detrazione pari al 19% del costo di “riscatto” a fronte dell’esercizio dell’opzione finale, per un importo non superiore a 20.000 euro "(quindi un massimo di 3.800 euro)". 
Per gli over 35 la detrazione massima annuale è, come quella dei mutui, di 4mila euro, mentre il tetto limite è ridotto a 10mila sul riscatto finale. 

Quindi, scegliendo il leasing, la detrazione si applica sull'intero importo della rata, rimanendo costante lungo tutta la durata del finanziamento. Molto più conveniente dei mutui dove, invece, la detrazione si applica solo sulla quota interessi, e conseguentemente decresce con il passare degli anni, considerando che nella prassi si utilizza l'ammortamento alla francese.

Il leasing immobiliare funziona come un normale leasing : un anticipo (intorno al 10/20% dell'importo), un piano di ammortamento a rate mensili e un canone di riscatto finale (intorno 5-10% dell'importo). 

Ma cos'è il "leasing" ?  
Nella guida del Mef è ben spiegato che "con l’operazione di locazione finanziaria (leasing), a fronte della stipula del contratto: 
- il bene è acquistato, o fatto costruire, dalla società di leasing (concedente) su scelta e indicazione del cliente (utilizzatore); 
- la società di leasing mette a disposizione dell’utilizzatore il bene acquistato o fatto costruire per un determinato periodo di tempo e l’utilizzatore si impegna a pagare periodicamente dei canoni; 
- l’utilizzatore ha la facoltà di acquistare il bene (riscatto), a un prezzo predeterminato alla scadenza del contratto. Il cliente, anche se non proprietario, assume tutti i rischi e benefici legati all’utilizzo del bene (per questo motivo, di norma, nel contratto di leasing, è previsto l’obbligo a carico dell’utilizzatore di stipulare apposita polizza assicurativa per i danni subiti dall’immobile o causati a terzi).

Da un punto di vista sostanziale, il leasing immobiliare consiste in un’operazione di finanziamento che consente all’utilizzatore di ottenere l’utilizzo di un immobile e di acquistarne, al termine della durata prevista, la proprietà, grazie alla provvista messa a sua disposizione da un soggetto abilitato al credito (il concedente) dietro il pagamento di canoni periodici e del prezzo di riscatto. "